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sabato 6 ottobre 2012

L' "id quod plerumque accidit" tra sfiga e miracoli

Per "id quod plerumque accidit", in latino, s'intende ciò che accade più spesso, il caso più probabile, ciò che costituisce la comune esperienza. E' una locuzione tuttora in uso soprattutto nel linguaggio giuridico, perché da essa il legislatore trae alcune conseguenze normative. La cosa in sé forse sembra trascendere i temi trattati specificamente in questo blog; tuttavia fa riflettere il fatto che persino una voce autorevole come quella della legge, sin dai tempi del diritto romano, sembra suggerirci che le cose che accadono di solito hanno la tendenza a continuare ad accadere sempre (...salvo beninteso prova contraria). Questo modo di guardare le cose - che in ambito legale ha sicuramente il suo valore ed il suo senso, come del resto anche nei tanti ambiti dove si fanno previsioni sul futuro grazie a ciò che emerge dai dati statistici con tanto di calcolo delle probabilità che un evento accada- in ambito esistenziale può comportare un certo tipo di attese verso la vita, che a volte legano il futuro al passato, quasi che il ripetersi di certi eventi venisse considerato un destino.
Il più delle volte queste attese non si basano su dati statistici, o calcoli attendibili, ma piuttosto su un nostro sentire, che ci fa considerare un certo tipo di configurazione, sequenza, circostanza, un "id quod plerumque accidit", ciò che secondo noi accade di solito e che quindi continuerà ad accadere.
Ci sarebbe molto da dire sul modo in cui si formano queste convinzioni: a volte capita di  generalizzare casi particolari, facendoli assurgere a regola universale; altre volte si è talmente convinti di un'idea, che se ne cercano conferme ovunque, fino a trovarle, perché si sviluppa un'attenzione selettiva verso ciò che è coerente con la nostra convinzione, a costo di tralasciare aspetti che la contraddicono.
Ma a parte la fondatezza o l'infondatezza di questo nostro sentire, noi che uso ne facciamo?  E' un qualcosa che può tornarci utile o che ci crea ostacoli lungo il cammino?
Probabilmente è vera l'una e l'altra cosa.
A volte questo tipo di attese può avere un valore, come dire, "consolatorio".  Se, per esempio, dite a qualcuno che una sua certa triste vicenda non vi stupisce per niente, che per come la vedete voi le cose della vita vanno spessissimo come sono andate a lui e che di solito si risolvono sempre bene,  è un po' come se gli aveste prestato il vostro fazzoletto pulito per asciugarsi le lacrime e soffiarsi il naso. Voi non potete garantire che "a lui" andrà tutto bene, però avete detto qual è secondo voi l' "id quod plerumque accidit".  Se siete credibili per il vostro interlocutore, lui probabilmente si sentirà consolato da questa vostra credenza, perché implicitamente condivide con voi un'altra convinzione di fondo, che cioè, appunto, le cose di solito vanno come... vanno di solito.     
Allo stesso modo, personalmente, non sarò mai grata a sufficienza ad una certa Elisa che, in un lontano passato, quando si trovava al mio fianco alla vigilia di terribili scadenze, alla mia puntuale domanda: "Che ne dici, Elisa, ce la faremo?", non rispondeva né sì né no, ma diceva semplicemente: "Ce l'abbiamo sempre fatta". Questa risposta - me lo ricordo benissimo -   mi suonava sempre come una buona notizia e m'incoraggiava parecchio, anche se in realtà non era tecnicamente una "notizia"! Tanto per cominciare non mi diceva niente di nuovo, niente che non sapessi già prima di formulare la domanda. Com'erano andate le mie cose in passato, lo sapevo benissimo: se avevo fatto la domanda era perché avrei voluto sapere a che punto stavamo in quel preciso momento e dove eravamo dirette. Personalmente non avevo la tendenza a generalizzare riguardo alla gestione delle scadenze, perché per me ogni scadenza era un caso a sé, con le sue specifiche incognite (poteva mancare la luce, poteva mancare un documento o un dato importante all'ultimo momento, potevamo farcela o non farcela per cento motivi diversi ogni volta). Eppure il fatto che lei affermasse, in un simile frangente, che ce l'avevamo sempre fatta, in passato, creava subito un "clima": un clima di speranza, di ottimismo, di fiducia nelle nostre forze e un po' anche - diciamocelo pure - nella buona fortuna.
Si usa dire che il modo migliore per far accadere i miracoli è crederci, e forse è proprio questo  il lato positivo di quando si respira un clima "fiducioso" rispetto al conseguimento di un obiettivo. Magari tecnicamente, scientificamente, razionalmente il clima in sé non potrebbe garantire un bel niente, ma poi,  di fatto, qualcosa fa. A parità di condizioni di partenza, un clima positivo, ottimistico e fiducioso, può portare a risultati diversi rispetto a un clima negativo, pessimistico e sospettoso. 
Forse tutto ciò diventa più evidente guardando le cose nell'ottica del funzionamento pessimistico.
A volte, il dare per scontato che tutto ciò che, secondo la nostra esperienza, di solito succede, sempre succederà, non conduce a un atteggiamento positivo verso le circostanze della vita. Magari in passato abbiamo fatto cattive esperienze e così abbiamo incamerato quelle esperienze negative  come modello di  "id quod plerumque accidit". Per esempio, alla vigilia di fatidiche scadenze ci è successo tutto ciò che non doveva succedere e ormai pensiamo che quella sia la regola per noi. A volte queste cattive esperienze possiamo non averle fatte nemmeno direttamente; magari sono esperienze di un nostro genitore, di un nostro antenato, di qualcuno insomma che apparteneva al nostro ambiente più stretto e le cui esperienze hanno potuto influenzare il nostro sentire. Ecco quindi che può subentrare un atteggiamento pessimistico verso la vita in genere o verso alcuni suoi aspetti: le cose andranno male, perché sono sempre andate male, perché è così che vanno le cose, e basta.
Come sostengono buona parte delle leggende e delle barzellette sugli iettatori, a volte un atteggiamento pessimistico verso le circostanze della vita sembra quasi una calamita per  eventi negativi.
C'è qualcosa di verosimile in questo? O sono solo leggende e barzellette?
Difficile trovare certezze su questioni del genere, ma ciò non esclude che si possano fare alcune considerazioni.
Tanto per cominciare c'è da dire che un pessimista, che lo sappia o meno, si dà  una specie di ricompensa tutte le volte che le sue previsioni negative si avverano. E' come se dicesse a se stesso: "Bravo, hai indovinato! Tu l'avevi capito subito che sarebbe andato tutto male!". E questo probabilmente gli dà un senso di controllo sul destino. Non può impedire i suoi colpi, è vero, ma almeno li può prevedere. E per quanto terribile sia prevedere cose negative, per lui  c'è sempre almeno questa piccola ricompensa: sapersi un veggente e trovare continue conferme di questo fatto. 
A volte sembra quasi che un pessimista trovi molto difficile sopportare uno stato di incertezza, quasi che lui consideri preferibile la certezza che le cose andranno male al non sapere come andranno. La suspense, il pungolo della domanda: "E ora che succederà?" sembra essere per lui talmente intollerabile che volte preferisce chiudere subito la questione, a costo di favorire (consapevolmente o inconsapevolmente) il verificarsi delle circostanze  sfavorevoli.
Un classico esempio di "favoreggiamento consapevole" è il gioco d'anticipo. Uno ha l'impressione che la sua donna si stia stancando di lui; trova intollerabile l'attesa del momento in cui lei lo lascerà; è pessimisticamente certo che lei prima o poi lo farà; è pessimisticamente certo che è inutile darsi da fare per tentare di migliorare le cose (perché tutto è destinato a finire ed è solo questione di tempo); allora prende coraggio e decide di lasciarla lui. Così si toglie il pensiero!
La variante inconsapevole del "favoreggiamento" è il noto schema della "profezia che si autoavvera". In questo caso il verificarsi di una terribile previsione, viene inavvertitamente  favorito proprio dall'atteggiamento e dai comportamenti conseguenti a quella previsione. Per esempio il nostro pessimista pensa che se camminerà in un certo vicolo sicuramente cercheranno di rapinarlo; allora entra nel vicolo con atteggiamento sospettoso; gli si avvicina un uomo con una sigaretta in mano per chiedergli innocentemente se ha da accendere; lui si aspetta che voglia rapinarlo e allora gli dà una spinta per difendersi; l'uomo risentito reagisce e lo riempie di botte;  poi magari provocatoriamente lo perquisisce per trovare l'accendino  e, nel fare ciò, non trova l'accendino, ma trova il portafoglio; allora, giacché c'è, svuota il portafoglio e lascia al nostro pessimista la magra consolazione di poter almeno dire: "Visto? Le cose sono andate proprio come dicevo io!". 
Siamo tornati dunque, attraverso la versione pessimistica, al discorso del "clima" e dell'influenza che può esercitare sulle circostanze in cui ci troviamo.

A conclusione di tutto questo, la cosa più naturale è forse chiedersi: sapere che i nostri pensieri possono determinare un certo clima intorno a noi è una notizia di qualche utilità?
Secondo me, sì.
Quello che noi pensiamo, quello che noi diciamo a noi stessi mentalmente e anche segretamente, è vero che nessuno può leggerlo a chiare lettere nella nostra mente, ma non per questo è un contenuto completamente sigillato dentro di noi. Qualcosa di questi pensieri trasuda dai nostri gesti, dai nostri sguardi, dal nostro ritmo vitale, persino dall'odore del nostro sudore, ed è come se proiettasse i nostri contenuti mentali nell'ambiente intorno a noi. E' tutta  comunicazione non verbale. Se mandiamo un certo tipo di messaggi intorno a noi, prima o poi potrebbero arrivare le relative risposte, come in ogni corrispondenza che si rispetti.
Insomma, non è mai male diventare consapevoli dei propri pensieri, specie se questo può migliorare non solo la nostra serenità interiore, ma anche il tipo di circostanze in cui tendiamo a trovarci.

Il discorso sarebbe lungo, e forse capiterà di riprenderlo.

Per ora vi saluto e, visto che non trovo un finale migliore, vi regalo una delle mie specialità: una bella citazione su ottimismo e pessimismo.

"L'ottimista proclama che viviamo nel migliore dei mondi possibili; e il pessimista teme che possa essere vero." (James Branch Cabell)