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domenica 27 novembre 2016

L'origine delle scarpe. Una favola sul funzionamento della mente, raccontata e commentata da Jon Kabat-Zinn


C'è un'antica storia che racconta come furono inventate le scarpe. 
C'era una volta, tanto tanto tempo fa, una principessa che un giorno mentre passeggiava andò a sbattere con l'alluce su una radice che sporgeva dal sentiero. Seccata, andò dal primo ministro e gli chiese con insistenza che formulasse un editto in cui si dichiarava che il regno doveva essere interamente ricoperto di cuoio, così che nessuno più dovesse patire un simile incidente. Ora, il primo ministro sapeva che il re desiderava sempre accontentare la figlia in ogni modo e dunque avrebbe avuto la tentazione di pavimentare davvero tutto il regno di cuoio; la cosa da una parte avrebbe risolto il problema e avrebbe reso felice la principessa e salvato tutti dall'indegno incidente, ma d'altro canto sarebbe stata pesantemente problematica per molti aspetti, per non parlare della spesa.
 Il primo ministro ci pensò su in fretta [non vorrei dire «su due piedi»] e rispose: «Ci sono! Sua altezza, invece di ricoprire di cuoio tutto il regno, perché non mettiamo insieme dei pezzi di cuoio e li adattiamo ai vostri piedi, convenientemente attaccati fra loro? In questo modo, dovunque andiate, i vostri piedini sarebbero protetti nel punto di contatto con il terreno e noi non dovremmo affrontare una spesa così ingente e rinunciare alla dolcezza della terra». Alla principessa piacque molto quel suggerimento, e così nel mondo comparvero le scarpe, e si evitò una grande pazzia.


Trovo incantevole questa storia; nella sua veste di favola per bambini rivela svariate intuizioni profonde sulla nostra mente. Punto primo: ci capitano cose che generano contrarietà e avversione, due termini che i buddhisti di alcune tradizioni amano usare e che penso descrivano molto accuratamente le nostre emozioni quando le cose «non vanno a modo nostro». Sbattiamo l'alluce, non ci piace per niente; in quel preciso momento e luogo ci sentiamo proprio contrariati, ostacolati, e cadiamo nell'avversione. Potremmo perfino dire: «Odio sbattere l'alluce!». In quel momento e in quel luogo ne facciamo una questione, un problema, di solito «un mio problema»; e allora il problema bisogna risolverlo. Se non stiamo attenti la soluzione può essere di gran lunga peggiore del problema.

Punto secondo: la saggezza suggerisce che il luogo in cui applicare il rimedio sia il punto di contatto nel momento stesso del contatto. Dunque evitiamo di sbattere gli alluci indossando una protezione sui piedi, non ricoprendo tutto il mondo mossi dall'ignoranza, dal desiderio, dalla paura o dalla rabbia.

Possiamo difenderci in modo analogo dal seguito elaborato di pensieri e diemozioni a cascata, spesso fastidiosi oppure affascinanti, che ogni singola, nuda impressione sensoriale innesca. Possiamo farlo portando l'attenzione al punto di contatto, nel momento del contatto con l'impressione sensoriale. E così quando c'è una percezione visiva gli occhi sono momentaneamente in contatto con la nuda e cruda realtà di ciò che si vede; nell'attimo successivo irrompe ogni sorta di pensieri e sentimenti...

«Ah sì, lo conosco.» «Non è carino.» «Non mi piace come mi piaceva quell'altro.» «Mi piacerebbe che rimanesse così.» «Mi piacerebbe che se ne andasse.» «Perché è venuto proprio adesso a darmi fastidio, a ostacolarmi, a frustrarmi?» eccetera.

La cosa, la situazione, è quel che è. Riusciamo a vederla con attenzione aperta e nuda, nel momento stesso in cui vediamo, e poi a portare la nostra consapevolezza a cogliere lo scatenarsi della cascata di pensieri e sentimenti, di preferenze e avversioni, di giudizi, desideri, ricordi, speranze e sensazioni di panico che seguono il contatto originale come la notte segue il giorno?

Se siamo capaci, anche solo per un momento, di limitarci a riposare nella visione di ciò che c'è da vedere e ad applicare con cura la consapevolezza al momento del contatto, possiamo lasciare che questa ci avverta della cascata - generata dalla piacevolezza o spiacevolezza o indifferenza dell'esperienza del momento - nell'attimo stesso in cui inizia; e possiamo scegliere di non lasciarcene intrappolare, quali che siano le sue caratteristiche, ma di lasciare invece che si svolga così com'è, senza correrle dietro se piacevole e senza rifiutarla se spiacevole. In quel preciso momento può darsi che vedremo dissolversi le contrarietà, perché le riconosciamo semplicemente come fenomeni mentali che sorgono nella mente.

Applicando la consapevolezza al punto di contatto nell'istante del contatto possiamo restarcene tranquilli nell'apertura del «vedere» puro e semplice, senza lasciarci trascinare così tanto nell'abituale produzione di pensieri condizionata e reattiva (la quale naturalmente non fa che portare ancora più turbolenza e disturbo alla mente togliendoci ogni possibilità di apprezzare la nuda e cruda realtà di ciò che è oppure, per quel che conta, di reagirvi in modo personale ed efficace).

La consapevolezza dunque ci serve da scarpe, proteggendoci dalle conseguenze dell'abitudine a reagire emotivamente, a lasciarci distrarre, a farci del male senza saperlo; è un'abitudine che affonda le radici nel fatto di non riconoscere, non ricordare e non occupare la natura più profonda del nostro stesso essere nel momento stesso in cui si genera una qualunque impressione dei sensi.

Se applichiamo la consapevolezza in quel momento e in quel modo, la natura del nostro vedere - il miracolo della visione - è libera di essere quello che è e la natura essenziale della mente non ne viene disturbata. In quel momento noi siamo liberi da ogni cosa nociva, liberi da ogni concettualizzazione e da ogni traccia di attaccamento: ci limitiamo a dimorare in pace nella conoscenza di ciò che viene visto, udito, annusato, gustato, percepito con il tatto oppure pensato, che sia piacevole, spiacevole o neutro. Concatenare simili momenti di presenza mentale gli uni agli altri ci permette di riposare sempre di più in una consapevolezza non concettuale, non reattiva, più libera dall'obbligo di scegliere, e ci permette di essere realmente quella conoscenza che è la consapevolezza, di essere la sua spaziosità, la sua libertà.
Mica male, per un paio di scarpe a buon mercato!
In realtà non sono poi tanto a buon mercato, anzi: sono senza prezzo, dunque inestimabili. Non possono nemmeno essere comperate, ce le possiamo solo fabbricare con fatica e con saggezza. Alla fine risulteranno, per dirla con le parole di T.S. Eliot, « costare nientemeno che tutto, tutto quanto ».


(da Jon Kabat-Zinn, Riprendere i sensi. Guarire se stessi e il mondo con la consapevolezza, edizione italiana Tea Pratica, 2008, p.46)

Le immagini di questo post sono tratte da opere di  Michel Tcherevkoff

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