venerdì 30 gennaio 2015

Il respiro così com’è - Un discorso di CHRISTINA FELDMAN

Recentemente mi è capitato di leggere una vignetta in cui un monaco giovane e uno anziano sedevano insieme. Il monaco più giovane, con un’espressione alquanto ansiosa sul viso, aveva evidentemente appena chiesto qualcosa al monaco anziano; ma il fumetto non ci palesa la domanda. Riporta solo la risposta. Il monaco più anziano dice all’altro: “Dopo non accade nulla. È tutto qui!“.
A volte quando iniziamo a meditare vorremmo che ci venissero insegnate tutta una serie di tecniche emozionanti, esoteriche, trascendentali. Invece quello che sentiamo ripetere più e più volte è il semplice incoraggiamento a stare con il nostro respiro. Inspirare con consapevolezza ed espirare con consapevolezza. Sentiamo dire che quando la nostra attenzione divaga, tutto ciò che dobbiamo fare è ritornare alla semplicità del respiro. Di solito, stranamente, siamo disponibili a farlo per un certo periodo.
Ma forse pensiamo che si tratti di una pratica per principianti, preliminare, in cui ci esercitiamo prima che comincino le iniziazioni e le meditazioni veramente interessanti.Una domanda inizia a insinuarsi nella mente verso il secondo giorno: che cosa in realtà ci sia di così speciale nel respiro. Qualche volta ci scopriamo abbastanza disinteressati, annoiati, o scopriamo di essere diventati, come si suol dire, goal oriented. Ci poniamo degli obiettivi (goals) come: essere con 5 respiri di seguito, 10 respiri di seguito.
Oppure diventiamo piuttosto meccanici e scopriamo che è ben possibile essere consapevoli del respiro e nello stesso tempo cullarsi in meravigliose fantasticherie. Oppure ancora, cercando un po’ di divertimento, diventiamo assai creativi con il respiro e proviamo a scoprire… lo sapete… cosa succede quando inspiro da una narice ed espiro dall’altra.
Inutile dire che in tutti questi piccoli esperimenti stiamo in un certo senso perdendo di vista il punto importante. L’inizio della nostra vita è segnato dal primo respiro.
La fine del nostro respirare è anche la fine della nostra vita. La consapevolezza del respiro momento per momento è in realtà un potente accesso sia alla vita che alla liberazione. Nella consapevolezza del respiro impariamo alcune delle più grandi lezioni della nostra vita. Impariamo anche qualcosa sulla profondità di saggezza e di silenzio che è disponibile per noi. Respiriamo per imparare a stare svegli e partecipare alla nostra vita. Respiriamo per imparare a essere in intimo contatto con tutte le cose. Respiriamo per scoprire un sentiero che porti alla fine della sofferenza. E nella consapevolezza del respiro impariamo a lasciar andare.

Nella nostra pratica essenzialmente impariamo a respirare come un Buddha. Il Buddha una volta disse che nella consapevolezza del respiro si sviluppa una potente quiete che conduce alla pace e all’illuminazione. Quando coltiviamo la consapevolezza del respiro portiamo a compimento la saggezza. Insegnando la consapevolezza del respiro il Buddha iniziò con le istruzioni: quando inspirate profondamente, sappiate che state inspirando profondamente. Quando inspirate superficialmente, sappiate che state inspirando superficialmente. Questa qualità della conoscenza menzionata è una qualità di chiara connessione e chiara comprensione.Vedere il respiro così com’è veramente in ogni momento è un allenamento a imparare a vedere tutte le cose della nostra vita così come sono. Il Buddha istruiva: inspirando sperimentate il corpo intero nel respiro. Espirando sperimentate il corpo intero nel respiro. Quando rivolgiamo l’attenzione al respiro, rivolgiamo l’attenzione al momento presente. E scopriamo che il respiro è qualcosa di vivo, fluido, mutevole, proprio come ogni momento nella vita è vivo, fluido e mutevole. Non c’è nulla che rimanga fermo, nulla che rimanga lo stesso.
Questo è in realtà l’inizio di una grandissima comprensione dell’impermanenza. È un cambiamento nel nostro modo di essere con le cose. La comprensione dell’impermanenza è infatti uno dei più potenti insight. Ha il potere di apportare un cambiamento radicale a tutta la nostra vita. Come vivremmo se capissimo veramente che tutto cambia, che non c’è nulla che possiamo costringere a rimanere lo stesso, che non c’è nulla fuori o dentro di noi a cui possiamo veramente aggrapparci? Se lo abbiamo capito veramente in profondità, allora il nostro modo di porci in relazione con la vita cambia radicalmente.
Ci spostiamo dal tentare di controllare le cose al capire che cosa significa partecipare veramente alla vita e impegnarci con ogni momento proprio come esso è. Il movimento dal controllo alla partecipazione è anche un movimento dalla lotta alla pace. Molto spesso nella nostra pratica scopriamo di perdere contatto con il respiro.
Ci separiamo dal momento in cui ci separiamo dal respiro. In quei momenti percepiamo come, in modi molto simili, ci separiamo dalle persone, dalla vita, anche da noi stessi. Iniziamo a vedere cos’è che ci fa veramente separare. A volte è solo l’abitudine a essere impegnati, o a fantasticare. A volte ciò che veramente ci fa “divorziare” dal respiro e dal momento presente sono tutte le filastrocche di “piacere e dispiacere”, di “volere e rifiutare”, che assai spesso si esprimono con il termine “dovrebbe”. Notiamo il potere di questa parola nella pratica del respiro. Possiamo dire per esempio che il nostro respiro dovrebbe essere più profondo o più interessante. Col respiro la lista dei “dovrebbe” è in realtà abbastanza breve.
Ma ogni volta che la parola “dovrebbe” nasce, arriva insieme a un altro messaggio: ossia che qualcosa è sbagliato, inaccettabile nella nostra esperienza, in ciò che accade. Nel resto della nostra vita la lista dei “dovrebbe” infatti tende a essere molto più lunga. Come dovrei essere, come tu dovresti essere, come la vita dovrebbe essere. L’effetto è sempre lo stesso: con la parola “dovrebbe” arriva la resistenza, a volte il giudizio, ma di solito la separazione, la perdita di contatto. Con la parola “dovrebbe” arriva l’idea di successo e fallimento, di giusto e sbagliato. E naturalmente noi non mettiamo sempre in discussione i nostri “dovrebbe”. Al contrario, seguiamo il sentiero del controllo, cercando di rendere il respiro conforme alle nostre immagini e aspettative. Allo stesso modo lottiamo per rendere noi stessi, o le altre persone, o la vita, conformi alle nostre aspettative. Il risultato è sempre lo stesso: una specie di agitazione, di disagio. Possiamo essere in un certo senso abitudinari, quasi dipendenti dal controllo. Possiamo credere che se riuscissimo, almeno una volta, a far coincidere le cose con le nostre immagini, allora saremmo finalmente felici. Le istruzioni di osservare il respiro così com’è, che sia profondo o superficiale, notando il modo in cui continuamente cambia, sono una fortissima lezione di vita: un invito a lasciar perdere le nostre aspettative, le nostre idee su come le cose dovrebbero essere e trovare pace con ciò che è. È un invito a spostarsi da uno stato di separazione a un maggiore senso di unità e armonia.
Questo insegnamento di unità e armonia è centrale nella consapevolezza del respiro. Nell’essere consapevoli del respiro impariamo infatti a coltivare l’unità. Rivolgendo l’attenzione al respiro impariamo a raccoglierci e a conservare memoria di noi stessi. La pratica di consapevolezza è anche chiamata pratica di raccoglimento. Mentre raccogliamo l’attenzione in questo momento, stiamo in realtà imparando a integrare corpo, mente e cuore nel momento presente. Impariamo a essere affettivamente aperti piuttosto che frammentati. Incominciamo a vedere quante volte nella vita non siamo effettivamente tanto presenti. Talvolta tendiamo verso il futuro, anticipando un momento migliore o più perfetto. O talvolta ci rivolgiamo indietro al passato, a come le cose erano, liete o tristi. A volte, mentre cerchiamo di essere presenti, scopriamo di non sapere bene dove siamo, di avere come degli spazi vuoti. La campana finale suona e improvvisamente apriamo gli occhi, pensando che se qualcuno ci chiedesse: “Dov’eri?” non sapremmo rispondere.

A volte il modo in cui ci allontaniamo dal presente è facendo le prove generali per il futuro: programmiamo i nostri domani, la conversazione che avremo, le cose che diremo, le cose che faremo. Scopriamo quanti momenti della vita abbiamo perduto, e quante cose ci sono venute a mancare in quei momenti perduti. Tutti presi dall’attività di programmare i nostri domani, dimentichiamo che cosa significa veramente vivere.

È curioso esaminare che cosa veramente facciamo in tutta la nostra attività di programmazione. Sembra che cerchiamo qualcosa. Non siamo neanche sicuri di che cosa stiamo cercando. Ma la sensazione è di star cercando qualcosa che proprio ora ci manca.

C’è un koan Zen che invita le persone a sedersi con la domanda: “Che cosa manca in questo momento?”. Quando siamo presi da tutta l’attività mentale, siamo anche in preda a un’agitazione piuttosto dolorosa. Molto raramente usciamo da un’ora di fantasticherie o ossessioni o programmi sentendoci più freschi o liberi o creativi. Quando ne usciamo fuori ci sentiamo così esausti e disperati che quasi dimentichiamo i successivi dieci minuti prima di imbarcarci nel prossimo “viaggio”.

Joseph Campbell disse una volta:

«Ciò che cerchiamo in un’esperienza è l’estasi di sentirci pienamente vivi.Tendiamo a credere che ci sia una gioia nell’essere vivi. Ma pensiamo sempre che questa gioia si trovi da un’altra parte, in qualche momento migliore che raggiungeremo dopo esserci liberati delle cose spiacevoli della vita o quando avremo il carattere perfetto o il corpo perfetto o la mente perfetta. Così viviamo con un sentimento di disappunto, perché la gioia di sentirci vivi sembra non arrivare mai. Eppure ciò non ci trattiene dal guardare avanti, nel prossimo momento o nella prossima progettazione. Coltivare l’unità nel respiro calma l’agitazione e sorprendentemente porta con sé un aroma di gioia. Impariamo a coltivare quel senso di felicità nella semplicità di essere presenti solo con questo respiro, questo corpo, questo momento. Sperimentiamo molto fortemente il fatto di essere tanto impegnati nei nostri piaceri e dispiaceri, nelle prove e fantasie e sogni a occhi aperti. Avvertiamo così potentemente questo senso di “me”.»

Avete notato come sia raro fantasticare con qualcun altro nel ruolo di primo attore? Di solito siamo noi gli eroi delle nostre fantasie. Non sogniamo il successo, la felicità e le grandi passioni di qualcun altro. Avete notato che quando ci perdiamo nei nostri progetti sul futuro si tratta sempre di quanto “io” sarò bravo. Quando ci perdiamo nelle storie del passato è sempre su cose che sono accadute “a me” o non sono accadute “a me”. Notiamo un senso dell'”io” molto potente che viene intrappolato nell’attrazione e nella repulsione. In modo contorto questo “io” cerca anche l’unità. Però cerca di trovarla attraverso l’afferrare e l’aggrapparsi, così da poter chiamare qualcosa “mio”: conosciamo il mio successo, le mie conquiste.
Evidentemente l’impermanenza è proprio una brutta notizia per l’attaccamento. Cerchiamo di attaccarci a qualcosa: ma non importa quanto saldamente ci afferriamo ad essa, questa scivola sempre via da noi.
Anche il meraviglioso momento di calma, la bellissima fantasia o il meraviglioso sogno a occhi aperti continuano a trasformarsi in qualcos’altro, proprio come il respiro. Provate a sedervi avendo solo inspirazioni: non funziona. Provate a sedervi avendo solo espirazioni: non funziona. Quando vogliamo tenere strette le cose, viviamo con la paura della perdita. Un genuino senso di unità non porta con sé l’ombra della perdita, perché l’unità che coltiviamo nel respirare è l’unità con il momento presente: che comprende il cambiamento, che non fa affidamento su nulla che rimanga lo stesso. Scopriamo una stupenda libertà in ciò.
Cominciamo a sentirla nella consapevolezza del respiro. All’inizio, quando stiamo attenti al respiro, ci sentiamo immedesimati nel ruolo di colui che respira, l’osservatore, che in qualche modo deve mettercela tutta. Piano piano, in modo sottile, questa sensazione inizia a cambiare, via via che diventiamo più intimi e connessi con il respiro. Improvvisamente il livello di sforzo necessario diventa molto minore; soprattutto perché iniziamo a connetterci con un senso più profondo di felicità e benessere. Siccome lo sforzo è molto minore, la sensazione di essere colui che respira inizia anch’essa ad affievolirsi. Avvertiamo semplicemente la sensazione del respiro che respira se stesso. Iniziamo ad avere una qualche comprensione del vuoto, della mancanza di colui che respira, che risulta in una certa comprensione della mancanza del pensatore, possessore e attore. La stessa armonia e calma nascente da una tale unità è un maestro assai potente. Ci insegna a lasciare andare, ci insegna a stare con ciò che è.
Le istruzioni del Buddha dicono anche: “Calmando l’intero corpo inspiriamo; calmando l’intero corpo espiriamo. Quindi calmando la mente inspiriamo ed espiriamo”. Come possiamo calmare la mente e il corpo? Perché impariamo qualcosa sul lasciarli essere proprio come sono.
Impariamo a lasciar perdere alcune delle nostre storie e aspettative e paure. Ogni volta che ritorniamo al respiro impariamo naturalmente come lasciare che le cose siano quello che sono. Scopriamo che la mente non deve fermarsi per trovare una profonda calma; che la mente non è un ostacolo alla pace; che il pensiero non è un ostacolo al risveglio. Il corpo con tutte le sue sensazioni non deve fermarsi; il corpo non è un ostacolo alla pace. A volte la mente e il corpo sembrano ostacoli, ma l’ostacolo è in realtà un altro. È l’avversione a non essere molto compatibile con la pace. Quando c’è avversione vogliamo solo che qualcosa vada via o finisca. L’avversione crea un sacco di storie. Quante storie avete scritto oggi in cui c’era l’avversione nella trama?
Il volere e il bramare sono ostacoli alla pace. Quanta agitazione si crea quando vogliamo che qualcosa rimanga o continui! La paura e l’ansia sono ostacoli molto forti alla pace: la paura del dolore, la paura dell’incertezza, la paura di essere fuori controllo. E tutte le storie che vengono con l’ansia. Il Buddha disse che la mente ossessionata diventa agitata. E la mente agitata è lontana dalla libertà. Disse anche che la mente non ossessionata non è agitata. E la mente che non è agitata è molto vicina alla libertà. Nella nostra pratica impariamo a respirare come un Buddha, non per uscire dalla vita ma per illuminarla. Respiriamo non per superare noi stessi ma per imparare ad abbracciare le nostre vite, con una consapevolezza gentile e chiara; per imparare a lasciare andare come atto di compassione e saggezza verso noi stessi.
Oggi ho parlato della fissazione: la tendenza della mente a soffermarsi, indugiare nelle cose. La fissazione è una specie di “prurito” mentale che grattiamo e grattiamo, cercando di trovare sollievo. Recentemente mi è capitato di leggere un detto che suggeriva: se vi trovate in una buca, sarebbe una buona idea smettere di scavare. Quando siamo ossessionati dalle fissazioni in un certo senso moriamo al mondo. Quando siamo ossessionati, il mondo di immagini e suoni e sensazioni tattili e tutte le cose che accadono intorno a noi non ci toccano veramente, perché non siamo consapevoli di esse.
Quando siamo ossessionati siamo travolti in un nostro mondo interiore molto contratto, molto stretto. A volte, con buone intenzioni, cerchiamo di investigare alcune di tali fissazioni (da dove vengono, perché sono qui, che cosa significano?). Ma spesso l’investigazione diventa una specie di modo di ossessionarci più consapevole. Sapete come potete distinguere tra investigazione e fissazione? Con l’investigazione, se vi ponete la domanda: “Posso lasciarlo andare?” la risposta sarà immediatamente “Sì!”. Con la fissazione, se vi ponete la domanda: “Posso lasciarlo andare?” la risposta è quasi sempre “No!”. Siamo prigionieri di ciò che ci ossessiona: questo è il motivo per cui impariamo a coltivare la calma del respiro.
È meglio impararlo da soli, perché è spesso difficile farsi convincere da altri. Una meditante a questo proposito mi ha detto: continuo a pensare a queste cose. Allora piuttosto che cercare di lasciarle andare, credo sia meglio continuare a pensarle. Ben presto avrò esaurito tutti i pensieri che è possibile avere. Dieci giorni più tardi le ho chiesto: “Come va? Hai finito?”.
E lei mi ha risposto: “No! Sai, sembra che vi sia un numero infinito di pensieri che è possibile avere”. La verità è che noi siamo un po’ innamorati delle nostre fissazioni, anche quando sono dolorose. Conoscete il mito greco di Sisifo? Sisifo è condannato a spingere un masso su per la montagna per l’eternità. Ogni volta che il masso arriva vicino alla cima della montagna, egli perde la presa e il masso rotola giù di nuovo fino al punto di partenza. Molta gente legge questa storia e pensa: “Povero Sisifo!”. Invece forse Sisifo era innamorato del suo pezzo di pietra. Avrebbe potuto semplicemente dire: “Perché non lasciarlo alla base della montagna?”. Anche noi a volte siamo innamorati delle nostre fissazioni: ci tengono impegnati, ci procurano qualcosa da fare. Ci forniscono un’identità, la sensazione di poter controllare le cose. E ci chiediamo: “Che cosa saremmo se lasciassimo andare alcune di queste preoccupazioni?”. Finché infine non esploriamo quello spazio: allora, quando ci svincoliamo dalle nostre fissazioni, scopriamo una grande vastità di calma che è davvero piena di gioia.
Il Buddha ci incoraggiava a inspirare lavorando per la cessazione, a espirare lavorando per la liberazione; a vedere lo svanire di ogni respiro, di ogni suono, di ogni visione, ma anche a vedere lo svanire della sofferenza; a vedere lo svanire del dispiacere e a vedere lo svanire della separazione. Ciò che veramente emerge in questo svanire, nel non afferrarsi più a niente, è un grande senso di calma e vastità. Perciò nella nostra pratica cerchiamo di imparare veramente a respirare come un Buddha.

Discorso tenuto da Christina Feldman durante un ritiro a Roma nel gennaio 2001. Traduzione a cura di Cristiana Gentili e Franca Zucalli

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domenica 25 gennaio 2015

Le Tre Piume e dintorni


Stamattina mi è tornata in mente una vecchia fiaba dei fratelli Grimm, Le tre piume, che funziona più o meno così.

C'era una volta un re che aveva tre figli, i primi due svelti e intelligenti ed il terzo così taciturno e ingenuo da essere soprannominato il Grullo.
Un giorno il re, sentendosi ormai vecchio e vicino alla morte, disse ai figli che avrebbe lasciato il suo regno a quello tra loro che gli avesse portato il tappeto più bello. 
Li invitò allora a mettersi in viaggio per fare le loro ricerche.

Per evitare che litigassero tra loro circa la strada da prendere, soffiò su tre piume e disse ai figli di seguire ciascuno la direzione indicata dalla piuma che gli era stata assegnata.

La piuma del primo figlio volò a sinistra, quella del secondo figlio volò a destra e quella del Grullo volò in avanti. Quest'ultima tuttavia fece pochissima strada e andò a posarsi per terra giusto davanti alla casa. 

I due fratelli grandi derisero il fratello piccolo e si misero in viaggio, mentre il Grullo rimase solo davanti alla casa, disorientato e più che mai senza parole.
Dopo un po' che se ne stava fermo lì, accanto alla sua piuma, il Grullo si accorse di un'impercettibile incrinatura del terreno, mai notata prima, pur essendo passato per quel luogo tante e tante volte. Guardò allora attentamente e scoprì che lì, proprio lì, c'era una botola. La sollevò, vide una scala e scese i gradini che portavano sotto terra.

Là sotto, dietro una porta, trovò un rospo circondato da tanti rospetti, che gli chiese che cosa volesse. E quando il Grullo disse di cosa aveva bisogno, il rospo gli consegnò il tappeto più bello del mondo.

Fu così che il Grullo vinse la gara con i suoi fratelli i quali, considerandolo sciocco e incapace di procurarsi un tappeto di valore, non si erano dati nessun da fare per raggiungere un buon risultato ed erano tornati a casa con dei ruvidi stracci presi dalle mogli dei primi pastori che avevano incontrato. 

I fratelli tuttavia non accettarono di buon grado che fosse il Grullo ad ereditare il regno e pretesero dal re una seconda prova (che fu trovare l'anello più bello) e poi una terza (che fu trovare la donna più bella) e poi una quarta (che fu far saltare le tre donne in un cerchio appeso nel salone, per vedere quale delle tre ci riusciva meglio, senza... rompersi le ossa). 

Tutte le volte fu sempre il Grullo a vincere perché, a differenza dei suoi fratelli, che non si erano minimamente impegnati nelle loro ricerche ed erano stati superficiali e sbrigativi, egli era stato l'unico a scendere fin sotto terra ed il suo impegno era stato premiato dai ricchi doni del rospo. 

Fu così che, alla morte del re, il Grullo ereditò la corona e regnò a lungo con grande saggezza.

  • Potete prendere questa fiaba come un regalo della domenica, raccontarla così com'è ai vostri bambini e finirla qui. In tal caso ricordatevi solo di precisare che la fanciulla di celestiale bellezza trovata dal Grullo era in origine una ranocchia che il rospo gli aveva donato dentro a una zucca gialla; poi si era trasformata in donna ma fortunatamente aveva conservato il suo talento per il salto: ecco perché era stata l'unica a saltare nel cerchio senza fracassarsi le ossa come le altre due!
  • Oppure potete leggere questa fiaba in chiave psicoanalitica e considerarla un invito ad esplorare la vostra interiorità (simbolicamente, scendere sotto terra) per andare alla ricerca dei ricchi tesori che essa certamente custodisce e che restano sconosciuti se ci si ferma alla superficie delle cose (come fecero i fratelli del Grullo). In tal caso vi rimando al bellissimo libro di Bruno Bettelheim, Il mondo incantato, che dice molte interessanti cose a riguardo. Dice per esempio che l'inconscio, come il Grullo, può sembrare un sempliciotto - visto che parla per immagini anziché a parole - "ma quando viene usato bene è la parte della nostra personalità da cui traiamo la maggior forza". Ciò che ha salvato il Grullo, infatti, è stato l'affidarsi a un rospo, cioè "alla natura animale, alle semplici e primitive forze all'interno di noi", che possono apparire sgraziate,  ma che quando sono bene usate per gli scopi più elevati, si rivelano di gran lunga superiori a un'intelligenza superficiale (come quella dei fratelli). 
  • Ancora, potete leggere questa fiaba in chiave life coaching e considerarla una metafora del fatto che in ciascuno di noi ci sono potenzialità che aspettano solo di essere portate alla luce - come il tappeto e l'anello del Grullo - e sogni che aspettano solo di essere tirati fuori e realizzati - come una ranocchia in una zucca, che aspetta di trasformarsi in donna. In tal caso, prendete questa fiaba come un invito a credere nei vostri sogni e a investire in essi energia, perseveranza e passione, senza importarvene del fatto che gli altri vi considerano "grulli": ride bene chi ride ultimo.
  • Infine potreste dare a questa vicenda anche una lettura da mondo Mindfulness e interpretarla nel senso che, se prestiamo una saggia attenzione alla nostra esperienza nel qui e ora, ci accorgeremo probabilmente anche delle "botole che abbiamo sotto i piedi" e potremo beneficiare dei ricchi doni della consapevolezza. Questo significa che diverremo più padroni di noi stessi (unici re del nostro regno) e non permetteremo agli eventi stressanti della nostra vita, ai nostri pensieri più cupi, alle emozioni difficili e ai problemi fisici (che ci remano contro, come i fratelli del Grullo) di occupare tutto lo spazio della nostra mente e renderci loro sudditi.
Quanto a me, devo confessarvi che nessuna di queste possibili interpretazioni mi ha spinta a raccontarvi questa fiaba. 
Stamattina, infatti, avevo in testa un'altra cosa.
Stavo riflettendo tra me e me circa il fatto che l'amore che nutro per la mia terra negli anni è andato maturando. L'ho amata per motivi diversi nelle diverse stagioni della mia vita.
Non credo che lei sia cambiata molto da quando sono nata. Secondo me, sono cambiata di più io.
Di lei molti dicono che sia peggiorata e che sia diventata una terra difficile, ma io su questo non voglio pronunciarmi (anche perché, probabilmente, si potrebbe dire lo stesso di me...).
Stamattina mi dicevo che un paesaggio cambia a seconda  delle lenti attraverso cui lo si guarda, e che le mie lenti negli anni sono cambiate più volte. 
Probabilmente oggi vedo e apprezzo cose che prima non riuscivo a vedere.
Così mi è venuta in mente una frase di Russel H.Conwell,  che dice:
I vostri diamanti
non si trovano su remote montagne o in mari lontani;
scavando, li troverete nel cortile dietro casa.
Alla fine, a prescindere da tutto, è questa frase che racchiude per per me il vero senso della fiaba delle Tre Piume e, viste le circostanze, la dedico oggi alla mia terra e a tutti coloro che ci vivono. 


Maria Michela Altiero, psicologa - colloqui psicologici anche al telefono e online
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