venerdì 27 luglio 2012

Qui ed ora (senza Leopardi e senza Proust)



Ieri ho fatto yoga nel soggiorno di casa.
Mi sono messa davanti a una portafinestra del balcone lato mare. Seduta a terra, nella posizione del loto, il mare non si vedeva.
Si vedevano solo i miei gerani e, dietro i gerani, la chioma di un pino.

Se fossi stata una specie di Giacomo Leopardi, mi sarei figurata dietro queste piante l'infinito e ci avrei fatto una bella poesia.
Ma un po' non sono Leopardi (e nemmeno una specie di) e un po' il mio intento in quel momento era semplicemente di acquietare la mente, senza vagare in un presunto infinito (fuori o dentro di me), ma restando piuttosto presente il più possibile nel qui ed ora: sul pavimento di casa mia in corrispondenza di quella specifica portafinestra del soggiorno.
Allora ho guardato attentamente i miei gerani.
Probabilmente lì, sotto i miei occhi, stavano crescendo, stavano producendo nuovi boccioli e nuove foglioline e anche nuove radici sotto terra. So bene che fanno queste cose dalla mattina alla sera: li innaffio ogni giorno e ogni giorno ci trovo qualcosa di nuovo, che il giorno prima non c'era. Però, quando li fisso, per quanto cerchi di essere "presente" nel qui ed ora, il loro sviluppo non posso coglierlo. Perché è un processo lentissimo e, appunto, impercettibile.
Dunque i gerani crescono di fronte a me e io non me ne accorgo.
Io faccio yoga di fronte ai gerani e loro non si accorgono di ciò che succede a me.
A un certo punto il vento porta in casa il profumo del mare.
Non il profumo di un mare qualunque, ma proprio quello del mare delle mie parti, con l'odore tipico dei suoi scogli, misto a quello delle erbe locali e forse addirittura delle cozze. Lo stesso odore che sentivo da bambina quando andavo al mare con la famiglia e dal seggiolino posteriore della macchina capivo che eravamo quasi arrivati a destinazione grazie proprio a quell'odore lì.
Qui si annuncia una fuga della mente nel passato attraverso una percezione olfattiva. E' una specie di madeleine di Proust, ed io non solo non sono Proust (e nemmeno una specie di), ma sono qui con tutt'altro intento: e cioè pacificare la mente nel qui ed ora, e non scappare nei ricordi.
Niente ricordi. Niente poesie. Niente fughe.
Solo: yoga, gerani, vento, qui, ora.
Respiro e sento il vento leggero che mi passa tra i capelli, mi carezza le braccia, attraversa il cotone della maglietta.
Vedo muoversi le foglie e i fiori dei gerani sotto lo stesso vento.
E così pure i rami dei pini.
Sento nel vento anche l'odore dei pini e anche quello dei gerani, oltre che l'odore di mare, di scogli, di erbette e di cozze.
Vedo due uccellini nascondersi tra i rami dei pini.
Sento uno che canta. Ne sento pure un altro. E poi un altro ancora.
Non penso a niente. La mente è silenziosa e quieta, paga finalmente del qui ed ora.
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Un'esperienza così è forse abbastanza lontana da Leopardi. E anche da Proust.
Ha in sé una qualche dose di poesia, ma è come se non fosse poesia delle parti nostre (come non lo è lo yoga dopo tutto).
Che dire?
In altre culture esistono piccoli componimenti poetici che spesso fotografano la piccola magia presente in certi momenti dell'esistenza.
Si tratta di magie talmente delicate che a volte la poesia può risultare assolutamente insignificante a chi è abituato a cose più sostanziose.
Cogliere e fotografare l'attimo richiede grande abilità.
Ma anche goderne.
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Per tutti un haiku di Matsuo Bashou e... chi capisce capisce... :-)


古池や/蛙飛びこむ/水の音

Vecchio stagno
Una rana si tuffa
Rumore d’acqua




Grazie dei fior... (coltivare la gratitudine - primi passi)


Per innescare un ciclo positivo nella propria vita bisogna pur cominciare da qualche parte. E visto che si tratta di una decisione e non di un caso, possiamo cominciare solo da cose che sono sotto il nostro controllo. Innescare un ciclo è come trovare una porta di accesso a una catena di eventi: una porta di cui abbiamo la chiave. Per dire, se vuoi ricevere bei doni, puoi cominciare col fare a te stesso un bel dono ed essere grato a te stesso di quel dono e alla sorte che ti ha concesso di fartelo. Oppure puoi cominciare semplicemente ad essere profondamente grato per i bei doni che hai già ricevuto nella vita (se non ti viene in mente niente, prova a dire grazie alla vita per averti dato cose meravigliose come la vista o l'udito, o anche semplicemente l'acqua corrente in casa, o - che so - persino la mamma, caso mai tu abbia avuto una mamma decente quando eri piccolo...). Coltivare la gratitudine è infatti un'ottima via d'accesso al ciclo positivo dei doni ("riceverli - esserne grati - riceverli - esserne grati ..."). In qualche modo favorisce l'arrivo di altri doni.
Non è la stessa cosa, però, effettuare uno scambio di doni. Infatti lo scambio è un rituale relazionale che non necessariamente ci porta doni realmente graditi (a volte si dice addirittura che "basta il pensiero"). Lo scambio sa quasi di adempimento, di un pegno per mantenere buoni rapporti col mondo, e tradisce la vera natura del dono, che è completamente gratuita (il vero dono è senza prezzo e non genera debito in chi lo riceve). Imparare ad essere grati dei doni è imparare a riceverli senza sentirsi in debito (e quindi un po' a disagio): è imparare a gioirne pienamente. Questo atteggiamento favorisce l'arrivo di altri doni. Innesca appunto il ciclo positivo di cui si diceva. Del resto, vista dal lato opposto (quello del donatore), è esperienza nota a tutti come sia gratificante fare un dono a chi l'apprezza, ne gioisce, ne è grato. Viene voglia di farglienene altri. Molte persone dicono di sentire così. E secondo me sente così... pure il destino
.

lunedì 23 luglio 2012

Desideri, pretese e speranze

Ieri in un negozio mi è stata fatta una bella cortesia: mi hanno cambiato un articolo comprato qualche giorno prima, non perché avesse qualche reale difetto, ma solo perché si era rivelato, come dire, "a me poco congeniale".
Ero entrata nel negozio per un altro motivo e, tra una cosa e l'altra, avevo accennato al commesso che quella cosa, con tutta la buona volontà, non riuscivo proprio a sentirla mia. Allora lui mi ha detto: "Cara signora, perché non me l'ha riportata? Gliel'avrei cambiata senza problemi!" 
Così sono corsa subito a casa a prenderla, lui me l'ha cambiata con un'altra che mi piaceva e insomma Amen: lieto fine.

Questa storia è talmente minima che forse non meriterebbe nemmeno di essere raccontata, se non fosse per la domanda del commesso. Perché non ci avevo pensato subito a riportargli la merce per farmela cambiare?
La risposta è che tecnicamente il prodotto non aveva difetti ed io non potevo pretendere che me lo cambiasse. Ma il fatto che non potessi "pretendere" il cambio non implicava che non potessi almeno "sperarlo".
Ed io non l'avevo nemmeno sperato!
La conclusione generale che ne ho tratto è che nella vita forse non possiamo sempre "pretendere" un lieto fine per le nostre situazioni esistenziali insoddisfacenti. Però possiamo almeno "sperarlo", ritenerlo possibile.
Questo è importante, perché in effetti agiamo diversamente quando riteniamo possibile un certo esito, rispetto a quando lo riteniamo impossibile.
Agendo "come se" una certa cosa potesse anche verificarsi, la rendiamo più probabile di quando agiamo sul presupposto che quella cosa non si verificherà mai.

Da qui prende spunto un pensiero lunghissimo, che non pretendo che chi è già arrivato fin qui si metta a leggere (ma confesso che oserò sperare che prima o poi qualcuno lo faccia!).


A volte noi desideriamo qualcosa, ma pensiamo che non ci spetti, che non ce la meritiamo, che non potremo ottenerla mai. E allora non ci proviamo nemmeno ad averla. Non la chiediamo a Dio, non la chiediamo alla sorte, non la chiediamo alle persone. Confessiamo a noi stessi un nostro desiderio segreto e ci diciamo da soli di no.
E questo è un ottimo sistema per assumerci il 100% della responsabilità delle nostre frustrazioni.
Ora non so cosa possa venire in mente a chi legge. Se gli viene in mente la volta che desiderò tanto uccidere la sua Prof., gli direi certo che fece molto bene a tenere il desiderio per sé e a dirsi di no da solo. E la chiudiamo qua. Anzi, la chiudiamo subito qua anche con tutte le altre possibili varianti del crimine.

Restando invece nel limitato campo del lecito, consideriamo come a volte siano superflui e anche controproducenti i limiti che mettiamo alle nostre speranze.
La prima cosa che mi viene in mente, è la storia, che a volte si sente dire, che Dio non va disturbato con richieste sceme. Questo implicherebbe che non si può pregare Dio per farci superare un esame o per farci prendere un treno al volo, o per ottenere altri miracoletti di piccolo calibro come questi. Magari sappiamo anche che quei risultati, a rigore, non ci spetterebbero (abbiamo studiato superficialmente, siamo usciti di casa mezz'ora dopo l'orario previsto). E allora? Se non speriamo in un miracoletto e non lo chiediamo, solo perché pensiamo che non ci spetti, secondo me ci facciamo del male da soli, perché praticamente nemmeno al Padreterno concediamo di aiutarci!

Ho tirato in ballo Dio, solo per fare un esempio. Ma la questione non è specificamente religiosa.
Sentirsi legittimati a desiderare cose che non possiamo pretendere, e sperare di ottenerle anche se non ci spettano, è in qualche modo un sano atto di fede. Ma non di fede in quanto fede religiosa, bensì di fede in quanto fiducia in genere nella vita, nella sorte, nelle persone, in un qualcosa di benigno insomma che ci circonda e ci accompagna, e che misericordiosamente ogni tanto perdona i nostri limiti e ci manda pure qualcosa di buono che pensiamo di non meritare.


A Napoli, la filosofia dell' "aiùtati che Dio t'aiuta" risponde un po' a questo tipo di atteggiamento. Magari con qualche distorsione dovuta alle condizioni estreme in cui a volte la gente si trova.

A tal proposito, mi viene in mente una volta che, tanti anni fa, mi trovai bloccata nel traffico in una strada del centro di Napoli. Avevo un appuntamento importante in una piazza che era lì a un tiro di schioppo, ma per come stavano le cose rischiavo proprio di arrivare fuori tempo massimo.
C'era un vigile, lì sotto il sole, tutto sudato, che si dava tanto da fare ma che, per quanto facesse, non riusciva a sbloccare la situazione.
A un certo punto mi resi conto che, se non ci fosse stato il vigile,
io avrei potuto imboccare una certa strada contro mano e tirarmi fuori dal problema con una piccola irregolarità. Dopo tutto "a mali estremi, estremi rimedi", e dopo tutto cento o duecento metri contro mano, a Napoli (almeno all'epoca), erano considerati peccato veniale.

Ma c'era il vigile.
Ed era pure visibilmente alterato.
Potevo sperare di passarla liscia?
Pretenderlo non potevo pretenderlo, ma sperarlo sì!
Allora scesi dalla macchina, andai dal vigile e gli dissi tipo: "Per piacere, me lo dà il permesso di passare di là, anche se è contro mano, così non arrivo tardi al mio appuntamento?".
Il vigile, tutto rosso in faccia, si mise a gridare.
Ma non gridò: "Signorina, che razza di proposta è questa da fare a un onesto vigile? Torni subito in macchina!".
No, gridò tutt'altro. E cioè disse: "Signorina, ma faccia quello che vuole! Io non ce la faccio più! Qua state tutti a chiedermi cose strane! Ce ne fosse uno che fa cose normali, in questa città! Io non chiedo altro che vi togliate di mezzo, tutti quanti! Sparite! Chiunque sparisce, comunque lo fa, è benedetto!"
Così feci il mio bravo tratto di strada contro mano e, con la benedizione del vigile, arrivai puntuale al mio appuntamento (... e, visto che l'ingorgo non è poi durato vent'anni, qualcosa di simile probabilmente avranno fatto pure gli altri, sorretti da analoga fede nell'eventualità che le situazioni di stallo, in un modo o nell'altro, si possono anche sbloccare...).



"Non importa quello che stai guardando 
ma quello che riesci a vedere." 
(Henry David Thoreau)