giovedì 10 agosto 2017

Una cura per chi cura. Pratica per chi si prende cura degli altri

Oggi vi presento una pratica che può esserci utile quando ci prendiamo cura di una persona  sofferente, malata o con disabilità.
Sia che assistiamo questa persona professionalmente (perché medici, infermieri, terapisti della riabilitazione, psicologi, educatori o altro tipo di operatori professionali), sia che l'assistiamo per vincolo familiare, amicizia o ragioni umanitarie, possiamo portare nella relazione diverse versioni di noi stessi. La versione efficiente, la versione frettolosa, la versione gentile, la versione sgarbata,   la versione calda, la versione fredda e via dicendo, compresi tutti i possibili mix tra le nostre varie versioni e anche i possibili sbalzi da una versione all'altra secondo i momenti.
Abbiamo mai provato a farci qualche domanda a riguardo?
Per esempio domande tipo:
  • la versione di me che sto portando in questo momento alla persona che assisto è intenzionale o mi è sfuggita di mano?
  • questa versione di me mi piace, mi è simpatica, è coerente con i miei valori, mi fa sentire fiero di me e di ciò faccio, dà un senso positivo al mio essere al mondo?
  • come mi sentirei in questo momento se ad assistermi, mentre sto male, ci fosse una persona con atteggiamenti simili?
  • potendo scegliere, quale versione di me considero preferibile per il bene mio, della persona che assisto e di chiunque altro sia coinvolto nella nostra relazione?
  • potendo scegliere, quale versione di me eviterei di portare nella relazione perché nociva per me, per la persona che assisto, per altre persone coinvolte?
Se possiamo, mettiamo per iscritto le varie qualità che caratterizzano la versione di noi stessi che avremmo scelto e le varie qualità che caratterizzano la versione che avremmo evitato, magari compilando uno specchietto di tipo questo:

Qualità e atteggiamenti della versione di me che sceglierei
Qualità e atteggiamenti della versione di me che non sceglierei















A questo punto possiamo passare alla domanda cruciale, e cioè:
- cosa mi impedisce certe volte di portare nella relazione la versione di me stesso/di me stessa che avrei scelto intenzionalmente?
Forse conosciamo esattamente la risposta a questa domanda, e allora benissimo.
Forse non la conosciamo, o la conosciamo solo parzialmente, e benissimo lo stesso. Può essere un buon motivo per cominciare a fare po' di luce dentro noi stessi e cercare di comprendere un po' alla volta di che carburante si nutre il nostro pilota automatico (di quali pensieri, sensazioni, emozioni) e che tipo di atteggiamenti e comportamenti sceglie di volta in volta per noi sotto la spinta di quel carburante (colonna di sinistra o colonna di destra?). 
La mindfulness, se coltivata con pratiche regolari e supportata dalle indicazioni che si ricevono durante un programma ben strutturato (per esempio il classico e fondamentale MBSR),  può insegnarci proprio questo: ad accorgerci sempre di più e in modo sempre più tempestivo, anche nella vita ordinaria e di relazione, di ciò che avviene dentro di noi e che ci spinge ad agire in un dato modo, per imparare poi a regolarci di conseguenza (per esempio disattivando il pilota automatico un attimo prima che metta in atto un  programma che non ci piace).
La mindfulness per noi professionisti delle professioni d'aiuto, o per noi che ci prendiamo cura dei nostri familiari, amici, o altri esseri umani, può orientarci sempre meglio verso scelte comportamentali intenzionali, coerenti con  i valori in cui crediamo, i valori che rendono nobile e pregevole per noi il prendersi cura degli altri, che sottostanno alla versione di noi stessi che ci piace e di cui andiamo fieri, e che vengono invece  traditi quando viene fuori il nostro personale Mr. Hyde della colonna di destra.
Perché ciò sia possibile è importante:
  • prendere atto delle forze che agiscono dentro e fuori di noi, quando ci relazioniamo con la persona di cui ci prendiamo cura; 
  • accogliere compassionevolmente ogni difficoltà o sofferenza che incontriamo dentro di noi (pensieri, emozioni, sensazioni difficili), prendendocene cura gentilmente e amorevolmente;
  • prendere atto di ogni forma di sofferenza o disagio che possiamo riconoscere nella persona che assistiamo;
  • accogliere compassionevolmente ogni sua difficoltà o sofferenza, prendendocene cura gentilmente e amorevolmente.
E' quello che viene suggerito nella pratica di oggi, che ho chiamato Una cura per chi cura, perché è pensata specificamente per sostenere chi si prende cura degli altri.
Essa è liberamente ispirata - solo ispirata -  ad un'antichissima pratica di compassione della tradizione meditativa tibetana, detta TongLen (che sta letteralmente per "dare e ricevere"), che suggerisce di aprire il cuore alla sofferenza umana, accogliendola dentro di sé con l'inspirazione, e di restituire in cambio, con l'espirazione, qualità che rechino sollievo a chi soffre.
Questa pratica non fa parte del progamma MBSR, dove viene proposta un'altra meditazione per rafforzare il sentimento di compassione, e cioè una pratica ispirata alla meditazione di Metta, di cui parleremo un'altra volta. 




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