venerdì 27 settembre 2013

Citazioni sul destino

"Il più bel teatro da guardare è il proprio destino."
(Alda Merini)
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"Che cosa so del destino dell'uomo? Potrei dirvi di più a proposito dei ravanelli."
(Samuel Beckett)
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"Lo vede il destino? Tutto è già scritto eppure niente si può leggere." (Alessandro Baricco)
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"Per l'uomo, il destino è come il vento per un veliero.
Chi sta alla barra non può decidere da dove debba soffiare il vento, né con quale forza, ma può orientare la propria vela. E ciò fa talvolta una bella differenza.
Lo stesso vento che farà perire un marinaio inesperto, o imprudente, incapace di agire per il meglio, ricondurrà in porto un altro."
(Amin Maalouf)
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" «Quando l'allievo è pronto, il maestro compare», dicono gli indiani a proposito di un guru, ma lo stesso è vero di un amore, di un posto, di un avvenimento che solo in certe condizioni diventa importante. Inutile cercare le ragioni, andare a caccia di fatti e spiegazioni. Noi stessi siamo la riprova che c'è una realtà al di là di quella dei sensi, che c'è una verità al di là di quella dei fatti e se ci ostiniamo a non crederci, perdiamo l'altra parte della vita e con quella la gioia, appunto, del mistero."
(Tiziano Terzani,)
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"È come se il destino ti desse una sola possibilità e concentrasse tutto dentro quel momento preciso, e lo facesse diventare così breve che la maggior parte di persone non se ne rende conto, o non è abbastanza pronta da reagire in tempo”.
“E tu?” ha detto lei “te ne rendi conto di solito?”.
“Non c’è un di solito” ho detto “succede una sola volta, se succede”.
(Andrea De Carlo)
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"Non la seguii, Georg. Anche quella sarebbe stata un’infrazione alle regole. Ero sconvolto, ero esausto, ero sazio. Avevo vissuto un’esperienza deliziosa e misteriosa della quale mi sarei potuto nutrire per mesi e mesi. Pensai che sicuramente l’avrei incontrata di nuovo. C’erano delle forze potenti, ma anche impenetrabili, a capo degli eventi."
(Jostein Gaarder)
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"Si voltò e lentamente tornò sui suoi passi. Non c’era più vento, non c’era più notte, non c’era più mare, per lei. Andava e sapeva dove andare. Questo era tutto. Sensazione meravigliosa. Di quando il destino finalmente si schiude e diventa sentiero distinto, e orma inequivocabile, e direzione certa. Il tempo interminabile dell’avvicinamento. Quell’accostarsi. Si vorrebbe non finisse mai. Il gesto di consegnarsi al destino. Quella è un’emozione. Senza più dilemmi, senza più menzogne. Sapere dove. E raggiungerlo. Qualunque sia, il destino. Camminava – ed era la cosa più bella che avesse mai fatto."
(Alessandro Baricco)

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"A me m’ha sempre colpito questa faccenda dei quadri. Stanno su per anni, poi senza che accada nulla, ma
nulla dico, fran, giù, cadono. Stanno lì attaccati al chiodo, nessuno gli fa niente, ma loro a un certo punto, fran, cadono giù, come sassi. Nel silenzio più assoluto, con tutto immobile intorno, non una mosca che vola, e loro, fran. Non c’è una ragione. Perché proprio in quell’istante? Non si sa. Fran. Cos’è che succede a un chiodo per farlo decidere che non ne può più? C’ha un’anima, anche lui, poveretto? Prende delle decisioni? Ne ha discusso a lungo col quadro, erano incerti sul da farsi, ne parlavano tutte le sere, da anni, poi hanno deciso una data, un’ora, un minuto, un istante, è quello, fran. O lo sapevano già dall’inizio, i due, era già tutto combinato, guarda io mollo tutto fra sette anni, per me va bene, okay allora intesi per il 13 maggio, okay, verso le sei, facciamo sei meno un quarto, d’accordo, allora buona notte, ‘notte. Sette anni dopo, 13 maggio, sei meno un quarto: fran. Non si capisce. È una di quelle cose che è meglio che non ci pensi, se no ci esci matto. Quando cade un quadro. Quando ti svegli, un mattino, e non la ami più. Quando apri il giornale e leggi che è scoppiata la guerra. Quando vedi un treno e pensi io devo andarmene da qui. Quando ti guardi allo specchio e ti accorgi che sei vecchio. Quando, in mezzo all’Oceano, Novecento alzò lo sguardo dal piatto e mi disse: “A New York, fra tre giorni, io scenderò da questa nave”. Ci rimasi secco. Fran."
(Alessandro Baricco, Novecento)

domenica 22 settembre 2013

Tappe di vita e dolori di crescita

Esiste una capacità,  che è importante avere quando si attraversano i passaggi cruciali del ciclo di vita, che è quella di riuscire ad accettare il dolore delle separazioni e dei distacchi, soffrendolo, vivendolo fino in fondo, dandogli tutto il tempo che richiede, ma senza consentirgli di travolgerci.
Qualcuno la chiama "capacità di crescere".
E in un certo senso non si finisce mai di crescere, a qualunque età.
E' una legge ineludibile dell'esistenza dover evolvere continuamente, dover passare - a volte più in fretta, altre più lentamente - da una situazione ad un'altra, da un'età a un'altra, in un fluire continuo, in cui siamo sempre noi stessi, eppure non siamo più gli stessi.
Sempre qualcosa deve finire perché qualcosa di nuovo possa venire alla luce: ogni evoluzione è così, e c'è sempre un lutto da elaborare per ogni cosa che finisce, per ogni perdita, per ogni distacco, foss'anche il più naturale che c'è, il più canonico, il  più prevedibile, come:
- lasciare il calore del ventre materno, per venire al mondo;
- lasciare il seno che ci nutre, per alimentarci di nuovi cibi;
- lasciare le braccia che ci sostengono, per camminare in autonomia;
- lasciare il guscio protettivo della famiglia, per andare a scuola;
e via via, di tappa in tappa (dall'adolescenza, alla giovinezza, all'età adulta, alla mezza età, alla vecchiaia) procedendo lungo il cammino della vita, lasciandoci via via alle spalle le molte cose che un giorno sono state tutto il nostro mondo, e un bel giorno non lo sono più.
Una mamma una volta mi ha detto: i figli si partoriscono due volte, quando escono dal pancione e quando escono di casa.
Alludeva all'aspetto di duplice inizio e duplice distacco, che accomuna queste due tappe della vita, e non solo per il figlio (che nascendo perde la protezione del corpo materno e uscendo di casa quella del tetto familiare), ma anche per lei, la prima volta lasciata a fare i conti con il proprio corpo improvvisamente vuoto, dopo l'esperienza di pienezza della gravidanza, e la seconda con il nido familiare, coltivato e accudito per anni, eppure anch'esso improvvisamente vuoto.
Eppure la perdita del pancione, prima, e il nido vuoto, dopo,  scandiscono tappe fondamentali per poter dire,  in un arco di vita individuale e familiare, che "va tutto bene", la prima volta perché " il bambino è nato", e la seconda perché "il giovane ha cominciato la sua vita adulta".
Se un lutto c'è, in tutto questo, riguarda un'epoca che si è dovuta chiudere perché un'altra si potesse aprire. E' un lutto evolutivo, che non ha niente a che fare con la morte (a cui la parola lutto abitualmente rimanda), ma piuttosto con la vita, e con i continui cambiamenti che essa prevede.
E' un lutto che riguarda l'elaborazione dei passaggi, l'accettazione dei  distacchi perché si trovi un nuovo adattamento alla realtà che muta.
Ed è forse proprio questo che a volte è importante chiarire soprattutto a noi stessi, mentre facciamo i conti con questo tipo di lutti e la fatica che comporta elaborarli.
Nel caso delle madri, come quella citata, il rimpianto, se c'è, riguarda la fine di un'epoca, la fine di una magia destinata per sua natura a svanire allo scoccare dell'ora prevista, e non è un dolore che si possa sanare riportando il bambino nella pancia o il giovane a casa, perché questo sarebbe andare contro il corso naturale della vita, contro la spinta a crescere del figlio e contro la stessa funzione della coppia genitoriale che, per tappe e gradi, prima accoglie il nuovo nato, poi lo alleva e poi lo aiuta a costruire un trampolino di lancio per consentirgli proprio di prendere il volo.
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A seguire, citazioni sul tema.
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"Vorrei far partecipe il lettore della mia convinzione: il lutto è un processo essenziale della psiche, fondamentale nello sviluppo dell'individuo, nelle varie età della vita, nelle famiglie e nelle culture. [...]
Il lutto, come io lo intendo quando lo qualifico fondamentale o originario, non dovrebbe essere confuso con la depressione. Quella è un accesso o uno scacco, questo è un processo maturativo universale che, secondo me, si accompagna più alla vita che alla morte."
 (Paul-Claude Racamier, Il genio delle origini)
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"...dopo ogni distacco, piccolo o grande che sia, segue inevitabilmente un periodo di lutto, un periodo cioè in cui tutte le nostre energie sono assorbite dalla sofferenza per questo improvviso vuoto che si è venuto a creare nella nostra vita. E' una vera e propria reazione depressiva che, secondo Freud, differisce dalla depressione solo per una caratteristica, la mancanza di autosvalutazione [...].

Ma se tutti i cambiamenti, piccoli o grandi che siano, ripropongono il tema della crisi inevitabile che accompagna ogni passaggio, alcuni di questi passaggi nel corso del tempo, fanno vivere la crisi alla grande, per la quantità di cambiamenti che vi sono concentrati.
Non solo l'adolescenza ne è un buon esempio (tutti gli adulti che hanno a che fare con gli adolescenti lo sanno bene), ma anche la crisi della maturità, quella fra i quaranta e i cinquant'anni circa, ripropone in modo massiccio il tema del distacco. Non è tanto il passaggio alle età successive della vita, secondo Racamier, quello che ci fa soffrire, quanto il distacco definitivo dalla nostra adolescenza che non tornerà più. [...]


'Sa, [raccontava una donna] mi rendo conto che la crisi che sto attraversando ha a che fare con i miei quarantaquattro anni. I primi segnali li ho avuti quando ho cominciato a sentirmi male in macchina, mentre andavo al lavoro l'anno scorso. Solo più tardi ho scoperto che avevo a che fare con l'ansia. Ma mi rendo conto di sentire una maggiore insicurezza fisica rispetto al passato: prima mi sentivo invulnerabile o perlomeno sicura del mio corpo. Adesso è come se pensassi che invece mi possa tradire, anzi in certi momenti penso di avere qualcosa di grave, che in realtà non ho, come un tumore. Un'altra volta mi si è informicolato un braccio e pensavo di avere un infarto. Ma la massaggiatrice mi ha detto che in realtà ero tutta contratta sulle spalle. E poi, le rughe. Sembrano piccole cose, ma io ero abituata a vederle solo sugli altri, gli anziani in particolare, ma non su di me. Quando le vedo mi spavento ancora e lo stesso mi succede quando le noto nelle persone della mia età.'

Sono questi i piccoli segnali dello scorrere del tempo che in certi momenti particolari si concentrano e iniziano a segnare un distacco dall'epoca di vita precedente; e il distacco, se lo vogliamo superare, comporterà inevitabilmente un periodo di lutto e di fatica. 
Si può ingaggiare una lotta col tempo, si possono moltiplicare gli interventi estetici, la palestra, tutto ciò che può cancellare i segnali esterni dell'età, ma non si può fermare, né riportare indietro l'orologio della vita."
(Alba Marcoli, Passaggi di vita)
(clicca anche qui)




venerdì 20 settembre 2013

Evergreen: il matrimonio secondo Gibran Kahlil Gibran


Nelle questioni relazionali, ed in special modo nelle questioni d'amore, c'è un tema ricorrente e inesauribile che è la capacità di essere soli anche quando si è in relazione con l'altro (ne abbiamo già parlato: clicca qui )
Restare differenziati anche quando si è in coppia, riuscire a  non perdere se stessi in una relazione, non dissolvere la propria individualità nella massa indifferenziata del noi comune, è una cosa meno semplice di quanto possa sembrare e di cui a volte non siamo neanche consapevoli.
Ci sono coppie che anche dall'esterno sono percepite come un tutt'uno;
coppie che ci viene da chiamare "Annaepeppe" anziché "Anna & Peppe";
coppie che se dici una cosa alla moglie, non c'è bisogno di ripeterla anche al marito, perché ad "Annaepeppe" l'hai già detto;
coppie dove invitare il marito a una cena ci esonera dal telefonare anche alla moglie, per dirle che la sua specifica presenza - non come accompagnatrice, ma perché è proprio lei lei - ci è particolarmente gradita (... cosa che magari lei non mette in dubbio, ma sai);
coppie che hanno un unico indirizzo email, un unico profilo facebook, un unico conto corrente e poco ci manca che non abbiano pure un'unica carta d'identità.
E' poco poetico parlare d'amore in questi termini?
E' poco saggio se si vuole che la gente continui a investire seriamente sull'amore?
Oggi vediamo cosa ne pensa Gibran Kahlil Gibran, poeta e saggio.
***
"[...] Allora Almitra parlò di nuovo e disse: Che cosa puoi dirci del Matrimonio, maestro?...
Ed egli rispose, dicendo:
Voi siete nati insieme, e dovrete sempre stare insieme.
Starete insieme quando le bianche ali della morte disperderanno i vostri giorni.
Sì, starete insieme anche nella memoria silenziosa di Dio.
Ma che ci siano spazi nel vostro stare insieme,
E che i venti del cielo danzino tra di voi.
Amatevi vicendevolmente, ma il vostro amore non sia una prigione:
Lasciate piuttosto un mare ondoso tra le due sponde delle vostre anime.
Riempitevi la coppa uno con l'altro, ma non bevete da una sola coppa.
Scambiatevi a vicenda il vostro pane, ma non mangiate dallo stesso pane.
Cantate insieme e danzate e siate allegri, ma che ciascuno sia solo.
Come le corde di un liuto, che sono sole, anche se vibrano per la stessa musica.
Datevi il vostro cuore, ma non lo date in custodia uno dell'altro.
Perché solo la mano della Vita può contenere i vostri cuori.
E state insieme ma non troppo vicini:
Poiché le colonne del tempio sono distanziate,
E la quercia e il cipresso non crescono l'una all'ombra dell'altro."
(da "Il Profeta" di Gibran Kahlil Gibran)


Vedi anche su facebook "Sera di Luna"
pagina di spunti su Amore & Co. collegata a questo blog
https://www.facebook.com/seradiluna1


domenica 15 settembre 2013

Ricorda: è con questo corpo che devi volare

"Questo fragile corpo
è la matrice 
della mente e dell'anima"
(Deng Ming-Dao)
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Nel libro di meditazioni taoiste "Il Tao per un anno" di Deng Ming-Dao, c'è un passo dedicato alla cura del corpo, dove si sottolinea che non possiamo permetterci di trascurare il nostro corpo, nemmeno quando il nostro cammino spirituale ci porta su piani dell'esistenza molto elevati. Quando ci mettiamo alla ricerca di noi stessi e di ciò che siamo, non solo non possiamo prescindere dalla manifestazione "solida" del nostro essere, ma la nostra esistenza fisica costituisce proprio il punto di partenza del nostro cammino.
 "Nella ricerca della mente e dell'anima", dice infatti Deng Ming-Dao, "è opportuno comprendere che il corpo non rappresenta il nostro autentico io, ma è altrettanto opportuno accudirlo quotidianamente. Rinnegare o mortificare la carne non ha senso, ma solo i saggi riescono a curare il proprio corpo pur continuando a guardare oltre."
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Personalmente, quando devo mettere in atto questo principio e ricordare a me stessa di non trascurare il mio corpo, mi dico questa frase: "ricordati che è con questo corpo che devi volare". Queste parole portano immediatamente la mia attenzione sul corpo, nei momenti in cui sono talmente concentrata in un'attività mentale, da non accorgermi di avere fame, sete, sonno, un dolorino qua o là, bisogno di stiracchiarmi o di riposare (oppure me ne accorgo, ma non do peso alla cosa). Per la verità mi dico questa frase anche quando organizzo mentalmente la mia giornata, la mattina, e mi accorgo di non aver messo in programma un po' di ginnastica, o una camminata, o un po' di yoga, perché tra un impegno e l'altro il tempo necessario per quelle cose non ci esce. In realtà so benissimo che se il mio corpo si sente bene, mi è più facile funzionare bene anche su altri fronti, non solo concreti, ma anche intellettuali, affettivi, spirituali, artistici.
Parafrasando Virginia Wolf - che sosteneva che uno non può pensare bene e amare bene se non ha mangiato bene - potremmo dire, abbondando, che se uno non digerisce bene, non dorme bene, non usa i dovuti riguardi alla sua muscolatura, alla sua colonna vertebrale, ai piedi, alle articolazioni, e a quant'altro riguarda il suo corpo, gli sarà più difficile partorire buone idee, buoni pensieri, buone parole, buoni sentimenti, buone battute di spirito, buone poesie, buone preghiere, buoni sogni, buoni progetti, e via dicendo.
***

Ed ora qualche divagazione, in chiave metaforica, ispirata dalla frase "ricordati che è con questo corpo che devi volare".
Questa frase rimanda metaforicamente all'immagine di un uccello, il cui corpo fisico alato, se in buona salute, gli consente di elevarsi da terra e di avvicinarsi alle cose del cielo, superando gli impedimenti frapposti da tutte le forze contrarie che agiscono nel mondo fisico, a cominciare dalla forza di gravità. Chi in cuor suo si riconosce in questa metafora, e vuole farla propria, può magari riflettere non solo sull'importanza di un corpo in salute per poter spiccare un buon volo, ma anche sull'opportunità - vista la natura "alata" dell'animale di riferimento (e quindi forse la sua tendenza a stare più volentieri in cielo che in terra) - di rinforzare le sue fragili zampette, per tutte le volte in cui deve starci necessariamente con i piedi per terra e deve quindi muovere comunque passi importanti anche nel mondo fisico. Gli uccelli infatti non devono dimenticare che non sono angeli; possono frugare il cielo quanto vogliono, ma per sopravvivere devono comunque prima o poi tornare sulla terra, mangiare, bere, dormire e anche fare l'amore (cosa che in verità non tutti sanno come funzioni per gli uccelli, ma che di sicuro non riguarda gli angeli!).
Se invece qualcuno non si sentisse per niente simile a un volatile e non si riconoscesse nella metafora dell'uccello - anzi all'opposto avesse la sensazione di essere per natura estremamente terreno e ancorato al suolo, rifuggendo da qualunque possibilità di elevazione - beh, allora forse questo post non lo riguarda per niente, o forse anche sì (come si spiega, se no, che abbia continuato a leggere fin qui?).
Magari, chissà, può valutare se l'immagine di un cavallo gli sia più consona come metafora: un essere buono a trottare, a trainare una carrozza o un aratro, a portarsi in groppa qualcun altro, buono anche a correre libero negli spazi ampi o a starsene docile e  paziente dentro un maneggio. Ma a volare no. Come si fa a dire a un cavallo "è con questo corpo che devi volare"? Sì, forse non è una frase felice da dire a un cavallo. Specie se è proprio convinto di essere un cavallo!
Mi viene in mente a tal proposito un aneddoto riguardante una persona che, nei sogni, vedeva spesso se stessa appunto nelle sembianze di un cavallo. Una volta mi disse di aver scoperto recentemente parti di sé molto spirituali, con cui era entrata in contatto profondo, pur senza  rinnegare la sua natura basilarmente terrena ("equina"), che la teneva quotidianamente a stretto contatto con gli aspetti più concreti dell'esistenza.
"Sai", mi disse un giorno con un lampo di luce negli occhi, "è successa una cosa interessante. Ho pensato a tutte le storie in cui qualcuno non sa chi realmente sia e convive con dei limiti che non sono realmente suoi, ma sono dovuti alle false credenze che ha circa se stesso. Che so, tipo il brutto anatroccolo, che non sapeva di essere un cigno e si era rassegnato a vivere da brutto anatroccolo; oppure anche l'aquila di Anthony De Mello che credeva di essere un pollo; e tutti i  vari principini e principesse abbandonati da piccoli, nelle fiabe, e che scoprono all'improvviso chi sono, dopo una vita intera di stenti e miserie. Allora ho pensato: e se anche il mio cavallo fosse vittima di una falsa credenza circa se stesso? Lui pensa che non gli sia concesso volare perché i cavalli non hanno le ali. Ma un attimo: lui è il mio cavallo simbolico, e non un cavallo vero in carne ed ossa! Sul piano di realtà i cavalli non hanno le ali, ma sul piano simbolico certo che le possono avere! Nella mitologia, per esempio, ogni tanto ce le hanno. Allora ho pensato a Pegaso, a un cavallo alato, che ha sia zampe forti, sia grandi ali, e che può correre sulla terra, quando c'è da stare in terra, come può volare in cielo, quando c'è da stare in cielo. E' questa la mia vera natura e la mia vera metafora!
Che ti devo dire? Sono dovuto arrivare alla mezza età per scoprire che sì, sempre un cavallo sono, e non c'è niente da fare,  ma - se permetti - sono un... cavallo alato!"


martedì 10 settembre 2013

Coltivare la terra per coltivare la felicità

Qualche anno fa mi capitò tra le mani un bel libricino dal titolo "Giardino & Ortoterapia - Coltivare la terra per coltivare la felicità", che già dalla copertina cominciò a trasmettermi un senso di pace. All'epoca mi interessavo di terapia occupazionale e quel libro mi fece venir voglia di spingermi (proprio letteralmente) sul terreno della terapia orticolturale, che dopo tutto è una delle possibili declinazioni della terapia occupazionale.
Così, quando mio marito, di lì a poco, mi chiese cosa desiderassi come regalo per una certa importante ricorrenza, non ebbi alcun dubbio sulla risposta: non una festa, non un oggetto, e nemmeno un viaggio turistico. Il regalo desiderato (e anche ricevuto, per la verità) era un corso professionale di terapia orticolturale presso la Scuola Agraria del Parco di Monza! Immersa nella bellezza del Parco, giorno e notte, assieme ad altri che come me erano approdati alla coltivazione della terra nell'intento di coltivare con essa anche un po' sé stessi, ho verificato di persona quanto nutrimento, non solo per la tavola ma anche per lo spirito, si possa  trarre dal lavoro nella terra, sia che si tratti della cura di un orto, sia che si tratti della cura di un giardino. 
E questo senza contare la magia, durante le pause, di mangiare seduti in un prato, di sostare all'ombra di una quercia, di annusare i profumi dei fiori, o di cogliere i giochi di luce tra le foglie. Il che non è soltanto poetico, ma ha anche effetti terapeutici. Tant'è che si parla, in questo caso, di "terapia orticolturale riflessa": perché anche semplicemente starci, nella natura, senza far niente, se non osservarla e percepirla con tutti i sensi, può fare molto bene, può fornire utili stimoli sensoriali ed emotivi, tenere desta l'attenzione, dare un po' di ristoro ad uno spirito afflitto e un po' di pace ad un animo inquieto...
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Ed ora un pensiero tratto dal libro di cui vi ho parlato.
"C'è chi ritiene che orto e giardino implichino filosofie e temperamenti assai diversi tra loro. Innegabile. Il giardino ispira la contemplazione, lì possiamo anche non preoccuparci di ottenere risultati ben precisi. Le piante saranno viste come forme, colori, profumi; lì si pota ma non si va a prendere cosa mettere a tavola. L'orto comporta invece tabelle di lavoro, momenti precisi per la semina, l'irrigazione, il raccolto. Nel giardino ci si può rilassare, sentirsi spensierati e in comunione tranquilla con quanto ci circonda; nell'orto occorre vigilare, avvertire la tensione tra il progetto dell'uomo e la spontaneità della natura.
La tanto millantata separazione tra orto e giardino ha tuttavia senso fino a un certo punto. Se nell'orto si va a lavorare, ci vorrà pure un giardino per pensare a quanto è stato fatto, a quanto resta da fare. Non cura un bel niente l'orto da solo , nella sua nuda essenza, senza la piacevole compagnia di fiori e cespugli e grappoli d'uva e osmanti fragranti e canto di uccelli e api che ronzano inebriate di polline.
Quella che guarisce davvero è la consapevolezza di prendersi cura dell'orto/giardino ritagliando intanto, non importa quanto piccolo, non importa quanto visibile a pochi, un angolo di bellezza nel mondo." 
(Pia Pera, da "Giardino & Ortoterapia - Coltivando la terra si coltiva anche la felicità)
 In questa foto: scorcio dei giardini del Priorato di  Notre Dame d'Orsan
Orto-Aromatico con le canestre di zucche e alle sue spalle la collezione di rose del Giardino di Maria
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"Se vuoi essere felice tutta la vita,
 fa' il giardiniere."
(proverbio cinese)
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Per saperne di più sui benefici dell'ortoterapia come forma di terapia occupazionale, clicca qui,
Per saperne di più sull'ortoterapia riflessa e i giardini che curano clicca qui

(Infine ci sarebbe questa foto
che non è un'inserzione pubblicitaria:
 è solo un libro che vi consiglio!)
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domenica 8 settembre 2013

Oggi regalo della domenica: un pieno di aforismi di Romain Gary!

Non sono scoraggiato. Ma l'eccessivo amore che nutro nei confronti della vita rende il nostro rapporto molto difficile, così come è difficile amare una donna che non si può aiutare, né cambiare, né lasciare. (da Cane bianco)
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È difficile, quando si sente il coltello alla gola, cantare intonato (da La promessa dell'alba)
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La provocazione è la forma di legittima difesa che preferisco. (da Cane bianco)
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Ci si incontra, non ci si incontra. Siamo fatti così. In genere, l'uomo e la donna che sono predestinati non si incontrano. Quello che si chiama fato, appunto. (da Cocco mio)
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Molte persone si sentono male nella loro pelle perché non è la loro. (da Cocco mio)
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So anche che esistono amori reciproci, ma non aspiro al lusso. Qualcuno da amare è un genere di prima necessità. (da Cocco mio)
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Non ho l'abitudine d'esser felice e non sapevo nulla degli effetti psichici che una condizione di felicità improvvisa può provocare su soggetti non assuefatti. (da Cocco mio)
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La mia ignoranza è finita verso i tre o i quattro anni e certe volte ne sento la mancanza. (da La vita davanti a sé)
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La gente tiene alla vita più che a tutto il resto, è anche buffo se si pensa a tutte le belle cose che ci sono al mondo. (da La vita davanti a sé)
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A volte, la cosa peggiore che può capitare alle domande è la risposta. (da L'angoscia del re Salomone)
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Perdere una persona amata è una solitudine terribile, ma non aver mai perduto nessuno è una solitudine ancora più terribile. (da L'angoscia di re Salomone)
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Nella mia vita ho conosciuto tante di quelle donne da poter dire di essere sempre stato solo. Troppo è uguale a nessuno. (da Chiaro di donna)
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I trattati di pace con sé stessi sono spesso i più difficili da concludere. (da Biglietrto scaduto)
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Non sono credente, ma anche quando non si crede ci sono dei limiti. (da L'angoscia di re Salomone)
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In ogni uomo si nasconde un essere umano che presto o tardi finirà per venir fuori. (da L'angoscia di re Salomone)
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giovedì 5 settembre 2013

Fa' tutto il possibile e poi... lascia che sia

Nelle cose della vita, c'è un confine - non sempre chiarissimo, per la verità -  tra ciò che è sotto il nostro controllo e ciò che non lo è.
Ci sono momenti  in cui ha senso chiamare a raccolta tutte le nostre forze - e anche insistere fino allo stremo - per cercare di influire sulle situazioni, sull'andamento di certe cose e sulla loro evoluzione, e momenti in cui dobbiamo lasciare che le cose vadano come devono andare, senza intrometterci.
Questo per il semplice fatto che moltissime circostanze ed eventi della vita non dipendono da noi e, per quanto noi possiamo tentare di controllarli, ogni nostro sforzo potrebbe rivelarsi non solo inutile, ma a volte addirittura... controproducente!
Quante volte ci capita, per esempio, di soffrire nel vedere che una persona che ci è cara non è felice.
In cuor nostro, vorremmo fare il possibile e l'impossibile per farla star bene e ci sentiamo quasi in colpa, se non ci riusciamo. Ebbene, ci sono casi in cui possiamo davvero fare qualcosa - e allora ben venga tutto il nostro impegno, la nostra solidarietà, la nostra fattiva collaborazione -  ma ci sono anche casi nei quali non possiamo fare proprio un bel niente per lei, perché il problema non è sotto il nostro controllo, ed anzi rischiamo di diventare noi stessi parte del problema, se ci ingeriamo in maniera inopportuna e invasiva (senza contare che certe volte una persona può aver bisogno proprio di passare attraverso un periodo di infelicità per  prendere decisioni importanti, evolvere, maturare, eccetera, per cui - se le vogliamo bene - dobbiamo tollerare che viva la sua vita pure lei, con le sue brave dosi di umano dolore, che magari abbiamo conosciuto anche noi, e che a nessuno possono essere risparmiate) (...chiusa parentesi). 
Oggi ripromettiamoci di accettare - almeno a livello razionale, se non ci riusciamo a livello emotivo - che non siamo onnipotenti e che in certi specifici casi della vita non possiamo fare proprio un bel niente perché le cose vadano come vorremmo noi. 
Il nostro compito allora è riconoscere quando è il  momento di smettere di affannarci e di lasciare che le cose vadano semplicemente come devono andare.
Cioè, quando è arrivato il momento di lasciare che sia...
***
"Non ricordo molto dei miei primi anni,
 ma ricordo la pioggia.
 Mia nonna [...] mi diceva sempre che 
Dio è nella pioggia".
(dal film 'V per Vendetta' 
diretto da James McTeique)

***
Una classica espressione napoletana per esprimere sollievo, quando qualche complicata vicenda giunge finalmente a buon fine, è "Assafà!".
"Assafà"  è la forma contratta  di "'Assa fa' a Dio!" o "'Assa fa' a Maronna"" (cioè "Lascia fare a Dio", o "Lascia fare alla Madonna") ed è una specie di riconoscimento ex post del benevolo intervento divino nella soluzione di difficili questioni umane. 
La strana peculiarità di questa espressione è che, nell'uso abituale, si adopera appunto solo a posteriori, a miracolo compiuto, quasi come un ringraziamento.
E prima? Quando i lavori sono ancora in corso e si arriva al punto in cui non possiamo più dire "'Assa fa' a me!", cosa si dice a Napoli, come equivalente di "Lascia che sia Dio a vedersela", o di un più generico  "Lascia che sia" (che dà spazio a qualunque Forza comunque capace di determinare un destino)?
Non so esattamente a Napoli come si dica, e in verità nemmeno negli altri posti d'Italia e del mondo.
In compenso - ma non vorrei sbagliarmi - mi sembra che a Torre del Greco,  da dove vi scrivo, si dica così:  

...LET IT BE! 
:-)


Citazioni sul lasciare che sia...

"Lasciare significa:
lasciare che per un po’ le cose
seguano il loro corso,
che si muovano liberamente
senza il nostro intervento,
finché la direzione del loro movimento
non si mostri spontaneamente.
Se rinunciamo a tentare di guidare le cose e quelle,
muovendosi, si allontanano da noi, lasciamole andare.
Molliamo la presa. Se le lasciamo andare
per la loro strada, ci rendiamo liberi per qualcos'altro."
(Bert Hellinger)
***
"Tutto ciò che cerchiamo di controllare controlla noi e la nostra vita." (Melanie Beattie)
***
"La vera padronanza può essere acquisita
lasciando che le cose vadano per la loro strada.
Non la si può acquistare intromettendosi."
(Lao-Tzu)
***
"Un genitore saggio lascia che i figli commettano errori. E' bene che una volta ogni tanto si brucino le dita." (Mahatma Gandhi)
***
"Dio c'è ma non sei tu. Rilassati." (Anonimo)

lunedì 2 settembre 2013

Oggi una poesia su... l'amore a prima vista!

Amore a prima vista
poesia di 
Wislawa Szymborska
***
Sono entrambi convinti
che un sentimento improvviso li unì.
È bella una tale certezza
ma l’incertezza è più bella.
Non conoscendosi prima, credono
che non sia mai successo nulla fra loro.
Ma che ne pensano le strade, le scale, i corridoi
dove da molto tempo potevano incrociarsi ?
Vorrei chiedere loro
se non ricordano -
una volta un faccia a faccia
forse in una porta girevole ?
uno 'scusi' nella ressa ?
un 'ha sbagliato numero' nella cornetta ?
- ma conosco la risposta.
No, non ricordano.
Li stupirebbe molto sapere
che già da parecchio
il caso stava giocando con loro.
Non ancora del tutto pronto
a mutarsi per loro in destino,
li avvicinava e allontanava,
tagliava loro la strada
e soffocando un risolino
si scansava con un salto.
Vi furono segni, segnali,
che importa se indecifrabili.
Forse tre anni fa
o il martedì scorso
una fogliolina volò via
da una spalla a un’altra ?
Qualcosa fu perduto e qualcosa fu raccolto.
Chissà, forse già la palla
tra i cespugli dell’infanzia ?
Vi furono maniglie e campanelli
su cui anzitempo
un tocco si posava su un tocco.
Valigie accostate nel deposito bagagli.
Una notte, forse, lo stesso sogno,
Subito confuso al risveglio.
Ogni inizio infatti
è solo un seguito
e il libro degli eventi
è sempre aperto a metà.

***


domenica 1 settembre 2013

Se fossi un albero... Nuove ispirazioni per le meditazioni nella natura

A novembre dell'anno scorso, ho già accennato alla possibilità di trarre ispirazioni positive dal nostro  rapporto con gli alberi ed ho suggerito anche una piccola meditazione per chi avesse avuto voglia di cimentarsi in una cosa così (clicca qui).
Oggi voglio portare la vostra attenzione sulle specifiche caratteristiche di ciascun albero, che - risultando più o meno attraenti per ciascuno di noi - possono essere fonte di nuove ispirazioni, a volte molto soggettive e personali, altre volte più comuni e condivisibili.
Uno spunto iniziale potrebbe essere porsi la domanda: "Se potessi rinascere albero, quale albero vorrei essere e perché?"
E una volta trovata una risposta, tipo: "Vorrei essere il tale albero, perché evoca in me l'idea delle seguenti qualità", magari valutare se sia proprio necessario aspettare di... rinascere albero per far entrare nella nostra vita quelle qualità, o si possa piuttosto cominciare sin d'ora ad attirarle e coltivarle nella nostra esistenza compatibilmente con la nostra attuale forma umana.
Ciò che in realtà intendo dire è che queste nostre ispirazioni possono essere adottate, sì, come occasioni di meditazione (l'albero ha certe qualità su cui porto deliberatamente la mia attenzione), ma possono rivestire anche un po' il ruolo di  "intenzioni", cioè di auspici a che le qualità evocate dall'albero emergano e si sviluppino anche in noi e nella nostra vita. 
Per esempio, potremmo trarre ispirazioni dalla flessibilità dei rami di un abete, e produrre intenzioni del tipo:  "Che io sia come questo abete i cui rami, sotto il peso della neve, anziché spezzarsi si flettono docilmente verso il basso e lasciano che la neve scivoli pian piano al suolo e vada via da sé."
Oppure, sempre in tema di flessibilità, e con maggiore enfasi sul versante della "resilienza" (intesa come capacità di resistere agli urti senza spezzarsi e quindi, psicologicamente, come capacità di una persona di affrontare e superare le avversità della vita, uscendone addirittura rinforzata e trasformata positivamente), possono fornire buone ispirazioni anche le palme.
Mi viene in mente, a tal proposito, il commento di Wayne W.Dyer alle seguenti parole del Tao Te Ching: 
"Chi è flessibile si conserva integro".
Dyer dice a riguardo: 
"Vivendo vicino all'oceano da molti anni, ho osservato la bellezza e la maestosità delle palme slanciate che crescono sulla riva, e che spesso raggiungono un'altezza di nove-dodici metri. Questi maestosi giganti sono in grado di resistere all'enorme forza dei venti che, nel corso di un uragano, arrivano a soffiare a trecentoventi chilometri all'ora. Migliaia di altri alberi vengono sradicati durante gli uragani, e spazzati via, mentre queste palme imponenti rimangono attaccate alle loro radici, dominando orgogliosamente sulle altre piante. Qual è dunque il segreto per cui le palme rimangono intere? La risposta è la flessibilità. Si piegano fino quasi a toccare terra a volte, ed è proprio questa qualità che permette loro di rimanere intatte. (...)
Quando forze possenti vi spingono in qualche direzione, curvatevi invece di opporvi, inclinatevi invece di spezzarvi, e siate liberi da qualsiasi rigido insieme di regole, così facendo rimarrete protetti e integri. Mantenete una visione interiore del vento, simbolo delle situazioni difficili, mentre fate l'affermazione: 
'Non ho rigidità dentro di me.
Posso piegarmi e rimanere integro.
Userò la forza del vento per rendermi ancora più forte e più  protetto.'
(...) riconoscete la 'tempesta' e poi lasciatela soffiare contro il vostro corpo, osservatelo senza giudicarlo, proprio come l'albero che si piega al vento. Fate caso se riappare la rigidità, e lasciate che i venti soffino, mentre vi avvalete del Tao, invece che dell'ego! Cercate di portare alla luce le radici della vostra intransigenza, e diventare più flessibili attraverso le tempeste della vita."
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Quelli che precedono sono, come ho detto, solo semplici esempi.
La simbologia degli alberi è infatti vastissima e risuona in modo diverso in ciascuno di noi.
Ben vengano quindi i sostenitori delle qualità del melo, della quercia, dell'olivo, del cedro del Libano, dell'albero di limoni, dell'albero di mimose, del salice piangente, della magnolia e di ogni altro possibile esemplare botanico.
Idee, spunti e anche suggerimenti da parte vostra, in questa materia, sono per me preziosi ed estremamente graditi e costituirebbero un sicuro arricchimento anche per il repertorio di meditazioni nella natura che - come forse avrete visto - fanno parte dei nostri eventi in programma per la prossima stagione (clicca qui )
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Ed ora, a seguire,
qualche parola sul coinvolgimento del nostro corpo in tutto ciò


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"La conformazione del corpo di ogni essere umano costituisce il fondamento di un suo senso di identità, organizza il substrato di base della percezione e del conoscere, è quello che ci permette di accedere alla concezione di vuoto e di pieno, di lento e di veloce, dell'espansione, della caduta, di stagnamento, di sgorgamento, di nebuloso, ecc. Il flusso di questi movimenti interni è alla base dei nostri sentimenti e dei nostri pensieri." (da Coscienza e risonanza corporee - di M.E. Garcia e A.Monteleone)
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Per chiarire meglio lo spirito delle meditazioni nella natura da me proposte, risponderò sinteticamente alla seguente domanda - che finora mi ha posto una sola persona, per la verità, ma da cui ho compreso che dipendeva la sua scelta se partecipare o meno a un'esperienza del genere.
La domanda è: "Mentre noi portiamo la mente su tutte queste ispirazioni che ci vengono dagli alberi, cosa ne facciamo del nostro corpo?"
In effetti, per meditare in pace ognuno di noi è libero di assumere col corpo la posizione che più gli è congeniale e in cui si sente più comodo (seduto, in piedi, in ginocchio, a gambe incrociate), magari avendo cura di usare alcuni piccoli accorgimenti, tipo tenere la schiena diritta, la testa allineata alla spina dorsale, e altre simili cose, comunque facili da apprendere.
Personalmente, quando mi dedico specificamente alla meditazione con gli alberi, amo assumere la posizione yoga detta appunto dell'albero (Vrksasana: clicca qui) e quindi adottare di volta in volta per le braccia la posizione più simile a quella dei rami della pianta a cui mi ispiro.
Se non siete esperti di yoga - e non avete, giustamente, nessuna intenzione di cimentarvi all'improvviso e senza alcuna preparazione nella posizione dell'albero - potete provare ad assumere una posizione del corpo molto più semplice ma capace comunque di evocare simbolicamente la "somiglianza" tra voi e la vostra pianta.
In particolare potete mettervi in piedi, con le gambe tese, il busto eretto, la testa allineata alla spina dorsale, e aprire le braccia di volta in volta con un'angolazione simile a quella dei rami dell'albero considerato (per esempio le orienterete verso il basso, meditando sulla flessibilità dei rami dell'abete;  o le terrete orizzontali, forti e accoglienti, se è una grande quercia l'albero a cui vi ispirate; o ancora le orienterete verso l'alto, se intendete fare come il pino marittimo che rivolge i suoi rami verso il cielo).
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Inutile dire che il giorno in cui accetterete il mio invito a partecipare ad una meditazione di gruppo nella natura, qualunque sia l'albero che personalmente vi ispira, a un certo punto dovrete riuscire a pensarlo (e quindi anche a pensare voi stessi...) come parte di un bosco (e cioè di un sistema più ampio di cui  tutti noi facciamo parte), con radici che si intrecciano ad altre radici e rami che si intrecciano ad altri rami, e valutare anche queste connessioni nei loro aspetti che vi piacciono di più e che vi piacciono di meno, nel bosco come nella vita.
Ecco allora che anche la posizione dei nostri corpi, in quel momento, può tener conto proficuamente di tutto ciò, come mostra per esempio la foto qui sopra, dove i membri del gruppo, tutti nella posizione dell'albero,  sono fisicamente connessi l'un l'altro tramite le braccia, e sperimentano così l'emergere di qualità  nuove, che prima il loro albero solitario  non aveva (tipo un più stabile equilibrio su una gamba sola, dovuto al sostegno fornito dal gruppo).