sabato 29 settembre 2012

Imprevisti

Il bello e il brutto dello stare al mondo è dato anche da una certa dose di imprevedibilità che aleggia ineluttabile sulle nostre giornate e che a volte possiamo percepire come minaccia,  a volte come semplice interrogativo ("cosa mi aspetta oggi?"), a volte anche come speranza , come quando attendiamo l'arrivo nella nostra vita di un qualche "deus ex machina", che ci tiri fuori dai guai.
A volte possiamo avere addirittura l'inconfessabile speranza che qualche imprevisto terribile intervenga nella nostra vita per sottrarci alle nostre responsabilità, offrendo a nostra discolpa un'incontestabile causa di forza maggiore. C'era per esempio un bambino del mio quartiere, quando ero piccola, che ogni tanto mi intratteneva con interrogativi del genere: "Per quanti giorni non si va a scuola, secondo te, se erutta il Vesuvio?", oppure: "Quanto tempo ci mettono, secondo te, per trovarci una  maestra nuova, se muore la nostra?", e altre cose così, che già all'epoca mi davano da pensare sullo strano rapporto che ciascuno di noi intrattiene con l'imprevedibilità del vivere.
Gli imprevisti, del resto, se da un lato possono mandare all'aria i nostri piani, far fallire i nostri progetti, metterci di fronte a circostanze rispetto a cui siamo impreparati e che ci impongono d'improvvisare una soluzione su due piedi, dall'altro possono anche smuovere situazioni stagnanti, scuoterci da  routine soporifere, darci una botta di vita in un momento di stanca esistenziale, fino a  indurci una buona volta a tirar fuori da noi stessi risorse inutilizzate, che magari nemmeno immaginavamo di avere.
Come in molte cose della vita, l'equilibrio è una questione di dosi. Ed è nell'equilibrio tra giuste dosi di prevedibilità e imprevedibilità che spesso si gioca buona parte della nostra serenità.
Ogni imprevisto è una sfida (più o meno grande, secondo i casi) alla nostra capacità di adattamento. Ed è una sfida personalissima, per cui valgono a poco le considerazioni di ordine generale e conta piuttosto come ciascuno di noi affronta, in un dato momento della sua vita, quel dato imprevisto, e cosa se ne fa di una simile esperienza.
Si usa dire che l'esperienza è qualcosa che facciamo quando siamo impreparati, e che non siamo mai abbastanza preparati se non abbiamo fatto esperienza.
La capacità di sopravvivere alle proprie esperienze e di farne tesoro, a volte richiede periodi più o meno lunghi di elaborazione. A volte il senso degli eventi, sul momento, ci sfugge. Non c'è tempo, del resto, per fare della filosofia, quando si combatte sulle barricate. 
Eppure è proprio la capacità di trovare un senso agli eventi, più o meno imprevedibili, della nostra vita, che ci consente di raccontarla agli altri, ma soprattutto a noi stessi, come una specie di bel romanzo, con un suo filo conduttore unitario, i suoi colpi di scena, i suoi momenti di suspense, ma soprattutto il suo significato umano. 
Trovare un senso agli eventi della nostra vita, alla fine, non è altro che trovare un senso a noi stessi, una risposta alla domanda latente "Chi sono e che campo a fare?", che non ci poniamo magari quando siamo al culmine della felicità, ma che prima o poi, anche senza tanti drammi, può sfiorare chiunque circoli su questa terra.
A volte non sono i fatti in sé e per sé a rendere interessante la nostra vita (come pure, del resto, un qualsiasi romanzo), ma piuttosto il modo personalissimo con cui noi protagonisti viviamo questi fatti, li affrontiamo e ne facciamo tesoro. Certo, sono prevalentemente gli imprevisti a fare storia, a creare trama, più che il tranquillo susseguirsi  di giorni prevedibili e "normali". E tuttavia non sono tanto gli eventi, prevedibili o imprevedibili che siano, l'elemento importante delle nostre storie, bensì lo sguardo personalissimo di noi  narratori-protagonisti su quegli stessi fatti. E' la lettura che noi ne diamo, attraverso la nostra  personalissima lente, che può conferire loro un senso, un'utilità esistenziale, un valore e anche una bellezza. E non è un azzardo affermare che lo stesso identico evento può essere considerato una fortuna o una disgrazia, secondo il modo in cui viene letto, secondo la cornice di senso in cui viene collocato, secondo il rapporto che secondo noi lega l'evento in questione ad altri momenti della nostra storia, in qualche misura determinati proprio, o comunque anche, da quell'evento.
Non è necessario scrivere un best-seller per dare un senso alla propria vita. Il romanzo della nostra vita è qualcosa che appartiene soprattutto a noi. Lo possiamo mettere per iscritto, se ci fa piacere, e certamente  la pratica autobiografica può essere una cosa molto utile, per noi stessi, per aiutarci a ricostruire i fatti  storici e il senso che questi fatti hanno avuto per noi. Ma non bisogna mai dimenticare che la vita che noi raccontiamo a noi stessi, giorno dopo giorno, per riepilogare mentalmente chi siamo, non è necessariamente un racconto immutabile. Con l'andar del tempo, infatti, potremmo accorgerci che abbiamo cominciato a raccontarci i soliti  fatti in un modo diverso da come ce li raccontavamo in passato. Come mai? Magari perché sono cambiati il nostro sguardo, la nostra concezione dell'esistenza, le nostre scale di valori e quindi la nostra chiave di lettura. Anche una psicoterapia può favorire una rilettura della propria vita in termini diversi da prima, come pure, del resto, altri tipi di esperienze particolarmente significative. 
In effetti è una strana storia la vita, perché è una storia che continuiamo a vivere mentre ce la raccontiamo, ed è difficile dire, a un certo punto: "Ecco, è questo il racconto definitivo della mia vita", perché ad ogni passo potrebbe esserci un'esperienza che rivoluziona tutto, che ci rivela nuovi squarci di senso, o ci rivela aspetti di noi insospettabili fino a quel momento. L'imprevisto, insomma, nel bene o nel male è sempre in agguato.
E c'è di più. Noi stessi cambiamo. E il più delle volte lo facciamo piano piano, magari senza accorgercene, fino a che ce ne avvediamo tutt'assieme, un bel giorno, quando il fatto è ormai eclatante. Anche questo, in fondo, può sembrarci un imprevisto: trovarci ad essere, oggi, una persona ben diversa da quella che eravamo abituati a raccontarci fino a ieri.
Infine, come per i romanzi che leggiamo o i film che vediamo, forse vorremmo noi tutti, anche per le nostre storie di vita, un qualche lieto fine.
Il gran finale, tuttavia, in senso oggettivo non c'è per nessuno. Per quanto gloriosa possa essere, qualuque morte è oggettivamente solo una morte: cioè la parola "Fine" a chiusura di un racconto.
Il massimo a cui possiamo ambire, secondo me, è avere il tempo di riuscire a raccontarci, prima di morire,  una versione di buona qualità della nostra storia. E forse non è un caso che - a quanto si dice - un momento prima di morire ci scorra davanti agli occhi  tutta la nostra vita .
Il vero lieto fine potrebbe essere,  a questo punto, nel livello di senso che il protagonista raggiunge, rileggendo la sua vita in quel momento: mettendone insieme i pezzi, i colori, le facce, le voci, l'incanto, i tormenti, le sconfitte, le vittorie, le gioie, i dolori, le illusioni, le delusioni, e quant'altro.
Il lieto fine è magari poter dire a se stessi in quel momento: "Ecco, io sono stato tutto questo. Mi fa proprio piacere."



venerdì 28 settembre 2012

Credere nei propri desideri e nelle proprie aspirazioni - primo assaggio

Credere nei propri desideri e nelle proprie aspirazioni ("regola della serenità" numero 8) significa prima di tutto sentirsi  legittimati ad essere se stessi ed aspirare alla propria autorealizzazione (a diventare, cioè, proprio ciò per cui ci si sente tagliati). Molto spesso purtroppo, soprattutto da giovani, possiamo subire vari condizionamenti a riguardo, da parte dell'ambiente che ci circonda, e finire col fare scelte di vita, di studio e lavorative basate più su criteri di desiderabilità sociale, che sui nostri stessi desideri più autentici. Una volta o l'altra, parleremo più in dettaglio dell'importanza di riprendere in mano le proprie vocazioni, quando si dovesse giungere ad una fase della vita in cui si affacciano i primi  rimpianti (e non necessariamente i primi) per le  antiche aspirazioni sacrificate. Ci sono magari sogni abbandonati, che possono trasformarsi da rimpianti in progetti, e darci così una sferzata di vita, di entusiasmo e di energia, proprio quando ne abbiamo più bisogno.
Ne riparleremo: questo è solo un primo assaggio. Mi è venuto in mente stasera, riguardando questo video in cui Benigni dice che  poco ci è mancato che diventasse... Don Roberto!
Vera o falsa che sia la storia, Benigni è un buon testimonial, quando si parla di autorealizzazione. Perché lui riesce ad essere se stesso, Benigni, così com'è. Vìola molti modelli di desiderabilità sociale e tuttavia è socialmente desiderabilissimo. Perché?Perché è convinto. E allora convince. E vince pure l'Oscar!
Buona visione!


http://youtu.be/cop5RbZteL4

giovedì 27 settembre 2012

"La pace è solo qui e adesso. E' ridicolo dire: 'Quando questo sarà a posto, allora potrò finalmente vivere in pace'. 'Questo' cosa? La laurea, il lavoro, una casa, il pagamento di un debito? Pensando così, non avrai mai pace. C'è sempre un altro questo che viene dopo. Se non sei in pace in questo preciso momento, non lo sarai mai. Se vuoi davvero essere in pace, devi esserlo adesso. Altrimenti, ti culli nella vaga speranza di avere pace 'un giorno o l'altro'." (Thich Nhat Hanh da 'Il sole, il mio cuore')

martedì 25 settembre 2012

"Una forma molto insidiosa di paura è quella che si maschera come buon senso o addirittura saggezza, condannando come sciocchi, inconsulti, insignificanti o velleitari i piccoli atti di coraggio quotidiani che contribuiscono a salvaguardare la stima per se stessi e la dignità umana." (Aung San Suu Kyi)

"Il fatto che mi basti poco per essere felice
 non significa che mi accontenti delle briciole.
 Altrimenti sarei un criceto." 
(Italo Calvino)



Portare a passeggio l'artista bambino (ovvero: aprirsi deliberatamente alla scoperta, allo stupore e all'intuizione)


Oggi vi parlerò di una delle (tante) attività che amo praticare personalmente e che in genere suggerisco a chi dice di sentirsi bloccato sul fronte creativo. 

Ne parlo in questo blog, perché la creatività è un aspetto importante del nostro piacere di vivere.
Quando ci sentiamo ispirati e la nostra creatività fluisce libera, non fa differenza se stiamo scrivendo un romanzo o se stiamo impastando una pizza: viviamo qualunque cosa stiamo facendo con una soddisfazione maggiore, perché ci sentiamo connessi con la parte più vibrante di noi stessi, quella appunto creativa. Le nostre idee, le nostre soluzioni, le nostre battute, hanno una marcia in più rispetto al solito, perché sono più nuove, più originali, più personali, ma soprattutto ci vengono spontanee e rimandano a noi stessi un'immagine molto più soddisfacente delle nostre capacità.
Diceva Jung: "La mente creativa gioca con gli oggetti che ama."
Ed è questo che vi propongo di fare: una specie di gioco. Una volta la settimana, per almeno due ore, tratterete la vostra mente creativa come un artista bambino che vi sta a cuore e lo porterete a... passeggio.
Le destinazioni di queste passeggiate saranno luoghi che possano fornirvi stimoli, sorprese e scoperte. Potranno essere luoghi da voi finora inesplorati, o esplorati solo superficialmente, o esplorati  solo raramente.  E' sempre consigliabile un contatto con la natura, ma è la varietà il principale requisito di questa attività. Per cui ritenetevi liberi di variare anche tra natura e non natura. Oggi si va nel bosco e fra una settimana al  mercatino dell'usato; una volta si va agli scavi archeologici e la volta dopo al porto; verrà il giorno del museo, quello del santuario,  quello dell'antro di un'antica maga, e quello del cono di un vulcano; il giorno della cima di una torre e quello di una barca di pescatori. Non c'è limite alla varietà di queste passeggiate. L'unico limite che c'è,  piuttosto, è un altro: cioè la compagnia. Non dovrete portare nessuno con voi , in queste passeggiate. Dovete stare soli, voi e il vostro artista bambino, e dedicarvi "tempo di qualità". Durante questo tempo giocherete liberamente con le  vostre scoperte, senza che nessun altro possa appiccicarci sopra le proprie etichette e guastarvi così la festa . Quindi, mi raccomando: niente cani, figli, amici, coniugi, amanti, o mamme. Soli!
Questo non significa che non farete incontri durante queste passeggiate. Voglio dire: può capitare benissimo che ne facciate. Ma avranno una qualità speciale e la riconoscerete voi stessi. Saranno anch'essi fonte di ispirazione.
Se pensate che tutto ciò sia stupido, o che non avrete mai tempo per cose del genere, vi invito a riflettere se per caso tutta questa reticenza non sia dettata dalla paura di un rapporto più intimo con voi stessi. A volte quando dobbiamo entrare in contatto con qualcuno che per noi è molto importante, cominciamo a trovare mille scuse per evitare l'incontro, per tenerlo lontano, perché la sola idea ci mette a disagio.
Però, se vogliamo che la nostra creatività emerga, dobbiamo entrare in intimità con essa e concederci il tempo per curarla e coltivarla; solo così il nostro artista bambino acquisterà fiducia e comincerà a fare progetti.   
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La mia ultima passeggiata col mio artista bambino risale a ieri mattina: splendida domenica di sole di fine settembre.
Ho accompagnato mia figlia ad un mercatino di libri usati, in una zona della città da me poco esplorata, ed ho deciso di lasciare lì la macchina e di proseguire a piedi fino al mare. Avrei percorso a piedi quella strada con lo spirito di un turista. Avrei osservato ogni singola pietra, ogni singolo giardino, ogni squarcio di panorama tra le case, ogni insegna, ogni cartello, con un occhio pronto a recepire l'inaspettato e a farne tesoro. E' questo che fanno i turisti, dopotutto,  quando vanno a visitare  un qualsiasi luogo. E fanno questo pure quando visitano le nostre città, cogliendone aspetti che magari sfuggono proprio a noi indigeni!
E così è stato. Mi sono nutrita di tutto ciò in cui mi sono imbattuta lungo il cammino: colori, odori, rumori e  quant'altro, e alla fine sono giunta al mare.
Sono arrivata in un tratto di spiaggia dall'aria abbandonata, dove mai sarei scesa normalmente, perché pieno zeppo di detriti di risacca. Ma io li avevo mai osservati da vicino i detriti di risacca? O li avevo sempre  considerati spazzatura, e quindi di nessun interesse? 
Allora ho deciso di osservarli per bene, una buona volta, ed ho visto che la spiaggia in effetti era piena di  interessantissimi pezzi di legno dalle forme e dalle dimensioni più varie: legno sbiancato dall'acqua di mare, legno sopravvissuto alle mareggiate, ai temporali, al sole e a volte persino al fuoco, che ne aveva annerito le estremità. Ho cominciato a raccogliere questi inusuali pezzi di legno, senza pormi il problema di ciò che ne avrei fatto.Per qualche strano motivo mi piacevano, come può piacere un giocattolo anche se non si sa bene come funziona. Ho messo questi legni nel mio zaino e poi ho raccolto un bel pezzo di radice tutto attorcigliato su se stesso e pieno di bozzi. Mente me lo rigiravo tra le mani, ho incrociato un vecchio amico che camminava sul bagnasciuga in senso opposto al mio. Ci siamo salutati e lui mi ha chiesto cosa intendessi farci con quella radice. Non ce l'avevo una risposta pronta. Andargli a spiegare la storia dell'artista bambino, in due minuti, sarebbe stata un'impresa. E poi a che pro? Era la mia personale passeggiata creativa e non ero tenuta a dare spiegazioni a nessuno. 
"Ci faccio un portacandele - gli ho detto - Che ne pensi?"
"E' un'idea creativa! - mi ha risposto - Io non riesco proprio a vedercelo un portacandele là dentro!"
Ci siamo salutati e lui ha proseguito per la sua strada.
Io invece non ho proseguito, perché tre signore che stavano lì vicino, coi piedi nell'acqua, mi hanno chiesto se potevo dar loro indicazioni su come trasformare una radice in portacandele.
La domanda mi ha colta di sorpresa.
Il fatto che io "avessi visto" un portacandele nella radice, non implicava che già lo sapessi realizzare.
Ma loro erano talmente interessate alla faccenda che mai e poi mai avrei voluto deluderle.  
Ed ecco venire in mio soccorso un preciso ricordo: un laboratorio di terapia occupazionale in cui ho operato per un certo periodo e le mani di due terapisti che insegnavano ad altre mani, quelle degli utenti, i passi necessari per pulire, grattare, levigare, lucidare e assemblare tra loro rami, cortecce, pigne e frutta secca, per trasformarli in splendidi centrotavola natalizi. Con tanto di candele, beninteso! E quelle procedure collaudate e semplici, che mi erano ricomparse davanti agli occhi, alla fine sono state le istruzioni che ho fornito alle signore.
Sulla via del ritorno, mentre ripercorrevo il bagnasciuga al contrario, ho visto venirmi incontro l'amico di prima, che stava tornando dalla sua passeggiata..
"Ho trovato l'Africa! - mi ha detto raggiante, brandendo un osso bianco, piatto, intarsiato  dall'erosione del mare - Guarda qua! Ce la vedi l'Africa?"
Io non ce la vedevo (come lui del resto prima non vedeva un portacandele nella mia radice).
Allora mi ha spiegato dov'era l'Africa in quell'osso, secondo lui;  me l'ha fatta vedere coi suoi occhi, finché  alla fine l'ho vista anch'io.
"Guarda - gli ho detto -  c'è anche un forellino, lì in cima. Puoi farne un ciondolo e agganciartelo al collo. E' la tua Africa, dopo tutto!"
Lui ha assunto un'aria perplessa e ha commentato: "Sto immaginando la faccia di mia moglie, se torno dalla passeggiata con un osso appeso al collo!"
E si è fatto una bella risata.


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domenica 23 settembre 2012

Bella intervista a Tiziano Terzani del 2002: L'unica rivoluzione possibile è quella interiore

In questa bella e significativa intervista, Tiziano Terzani dice cose molto importanti sul suo modo di concepire e vivere l'esistenza. Ma soprattutto conferma una cosa che ho sempre pensato, e cioè che un grand'uomo non è un vero grand'uomo, se non è anche... simpatico!


Matthieu Ricard (l'uomo più felice del mondo) dà alcune indicazioni pratiche su come tutti possiamo ri-trovare la nostra felicità


La scienza occidentale, che ha definito i parametri neuro-bio-chimici e fisiologici per misurare la felicità, ha decretato Matthieu Richard l'uomo più felice del mondo. 
Qui Matthieu ci da alcune indicazioni pratiche su come tutti possiamo ri-trovare la nostra felicità.

sabato 22 settembre 2012

Perdonare per sentirsi bene

"Perdona gli altri,
 non perché essi meritano il perdono,
 ma perché tu meriti la pace."
 (Buddha)

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Ieri una donna mi ha detto: "Non sono io, a non essere serena: sono gli altri che mi fanno arrabbiare!". Ed effettivamente sembrava un po' arrabbiata pure mentre lo diceva. Ma arrabbiata di che, in quel momento, visto che - in quel preciso momento -  nessuno le stava facendo niente?
Il ricordo delle offese e delle prepotenze subite, e tutti i pensieri occasionati da quei ricordi, non facevano che generare nuova rabbia, nuovo dolore, nuovo rancore, che avvelenavano anche il presente, ammorbando,  anche l'aria buona di un momento tranquillo. 
Questo mi dà lo spunto per proporre oggi la rivisitazione di un vecchio argomento, quello del  perdono, abbastanza noto a tante persone anche perché presente, pur con diverse sfumature, in varie fedi religiose.
Non intendo però parlare qui del perdono in quanto atteggiamento nobile o auspicabile secondo parametri religiosi o morali. 
L'importanza del perdono, per i nostri fini, non sta nel fatto che può renderci più buoni o più santi, ma  sta piuttosto nel fatto che porta ad un alleggerimento:  ci libera da un peso dell'anima, da un sentire negativo, da una forma di afflizione che può continuare a seguirci anche dopo molto tempo che l'offesa ai nostri danni è stata perpetrata.
In che modo il perdono può giovare a chi lo elargisce,  a prescindere da qualunque discorso religioso?
Tanto per cominciare bisogna togliersi dalla testa l'idea che il perdono sia qualcosa che facciamo per il bene di un altro, un regalo che facciamo a chi ci ha offeso. Al contrario! Dobbiamo considerare il perdono un regalo che facciamo a noi stessi:  un modo per liberarci dal rancore e  per spezzare così un vincolo che ci tiene legati  a doppio filo  proprio alla persona che ci ha offeso. Fino a che non l'avremo perdonata, questa persona continuerà a farci del male, perché noi ce la porteremo dentro, con tutto un bagaglio di negatività che ci avvelena l'esistenza e che si aggiunge al danno che abbiamo già subito con l'offesa in sé.
In secondo luogo, dobbiamo renderci conto che perdonare non equivale a rinunciare ad ottenere giustizia. Spesso si confonde il perdono con l'indulgenza. Perdonare non implica che chi ci ha offeso non debba essere ritenuto responsabile del suo agire immorale, disonesto o illegale. Se l'offesa che ci è stata arrecata è risarcibile o è sanzionata in qualche modo dalla legge, è giusto e sano pretendere il risarcimento  materiale e morale che ci spetta. Se abbiamo ragione, è giusto che questa ragione ci venga riconosciuta. Per quale motivo mortificarci (al di là di nostre eventuali segrete aspirazioni di santità tramite il martirio)? Perdonare è un altro discorso: significa andare avanti con "la causa" e intanto lavorare per far andare via il dolore, la rabbia, il rancore; significa cioè trovare un modo per spezzare il vincolo emotivo che ci lega alla controparte, e che, finché permane, ci rende perdenti anche in caso di... sentenza favorevole. 
E che rispondere a quelli che dicono: "Io perdono solo chi se lo merita"?
Semplicemente che è controproducente aspettare, per perdonare, che l'altro "meriti" il nostro perdono, che cioè "faccia qualcosa" per meritarlo. In questo modo, infatti, continuiamo a dare all'altro il controllo sulla nostra vita, mentre il perdono è una scelta che facciamo noi, solo per noi e per il nostro bene.
Messo così, questo perdono potrebbe avere un po' l'aria di un "atto egoistico". Non lo so, forse lo è. Ma ciò non significa che sia negativo! E' anzi un atto di egoismo positivo, se così si può dire: uno dei gesti più amorevoli e positivi che possiamo fare verso noi stessi.
Che poi da questo perdono derivi anche, indirettamente, un miglioramento nei rapporti con gli altri, è  possibile, certo, ma non è l'aspetto essenziale dell'esperienza. Infatti si possono ottenere benefici dal perdonare, anche senza che la persona perdonata sappia di... essere stata perdonata. Può trattarsi  di persone che non sono più in vita, o che sono irraggiungibili per altri motivi.
L'importante non è che loro sappiano che le abbiamo perdonate, ma che noi sappiamo di esserci liberati dalla rabbia e dal rancore che provavamo verso di loro, che ci opprimevano, che ci pesavano, e che ora non ci opprimono e non ci pesano più. 
Perché è proprio questo che fa il perdono. Ci libera da un grosso carico di negatività e consente a nuove energie di fluire nella nostra vita, alleggerendola di inutile zavorra e rendendola più positiva e serena.
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Il discorso sul perdono, in quanto via di promozione della serenità e del benessere, non si esaurisce certamente qui. Ci sarebbe ancora moltissimo da dire, a riguardo.
Chiunque si metterà alla ricerca di informazioni e teorie sull'argomento, troverà molto materiale, un po' per tutti i gusti. E' anche per questo motivo che mi fermo qui, nel rispetto del patto iniziale, per cui, anche se la nostra meta è unica, ognuno di noi la raggiungerà nel modo che gli è più congeniale.
Tra gli argomenti che non trovano spazio su questa pagina, alcuni hanno premuto fino all'ultimo, per cercare di entrare. Ho detto no, ma almeno li cito.
Resta aperto l'argomento non secondario di "come si faccia" a perdonare. A riguardo la varietà delle proposte è davvero molto ampia; chi è interessato e davvero motivato si metterà alla ricerca degli strumenti e delle tecniche più adatte al suo caso, e prima o poi troverà quella giusta per lui.
Restano infine aperti altre due temi importanti: il perdono di se stessi (riuscire a perdonarsi) e il desiderio (a volte disperante) di essere perdonati da qualcuno (importanza attribuita all'essere perdonati). E avremo modo di parlare anche di questo, una volta o l'altra.
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Forse ho tirato fuori troppa roba per una sola donna che ieri mi ha detto: "Non sono io, a non essere serena: sono gli altri che mi fanno arrabbiare!" 
Ma ormai a questo punto che vi posso dire? 
Perdonatemi... 
 ;-) 
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Vedi anche: Come fare per perdonare? Le quattro fasi del perdono secondo Clarissa Pinkola Estés

giovedì 20 settembre 2012

Sperimentare nuovi punti di vista


Molti anni fa, sentii dire al conduttore di un corso di formazione sulla comunicazione, qualcosa del tipo: "In tanto noi possiamo comprendere un altro essere umano che parla delle sue esperienze sensoriali o emotive, in quanto abbiamo i suoi stessi sensi ed il suo stesso bagaglio emotivo. Se uno ti dice che ha visto qualcosa, tu hai idea di cosa significhi 'vedere' perché a tua volta vedi. Se tu fossi cieco dalla nascita, farti comprendere cosa significhi realmente 'vedere' s
arebbe molto complicato e forse impossibile. Idem per le emozioni: se tu dici a qualcuno che hai paura o che sei arrabbiato, quello ti capisce al volo, perché a sua volta, prima o poi nella sua vita, ha avuto paura o è stato arrabbiato; ma se tu per ipotesi parlassi di un'emozione da lui mai provata non ti potrebbe comprendere."
Vabbè.
Passò qualche anno e un bel giorno, mentre frequentavo il primo anno del corso di laurea in psicologia, tornò in mezzo, non ricordo come, un discorso più o meno analogo. Allora chiesi espressamente ad una Prof.: "Ma noi, come facciamo a comprendere cosa prova una persona, se non abbiamo vissuto le sue stesse esperienze?" e lei mi rispose secca secca: "Studiando!".
Dopo qualche tempo, una volta, a lezione, la stessa Prof. si mise a descrivere in ogni minimo dettaglio le esperienze psichiche di un neonato nel rapporto con la sua mamma (... e per piacere non chiedetemi come sia possibile comprendere cosa frulli nella testa di un neonato, perché è una storia lunghissima e complicata e al massimo posso fornire riferimenti bibliografici). Insomma la Prof. doveva descrivere la beatitudine di questo neonato in una certa esperienza fusionale con la sua mamma e a un certo punto disse: "Per farvi capire, somiglia a ciò che provate voi quando siete innamorati e state beatamente con la persona che amate". Tutti finalmente abbiamo capito e non c'è stato bisogno di altre chiacchiere.
Passa altro tempo e un giorno m'imbatto per caso nel famoso detto di Ch’ing-Yuan:
"All’inizio le montagne erano montagne e le acque erano acque,
quando penetrai nella sapienza zen le montagne non erano più montagne e le acque non erano più acque,
ma quando raggiunsi l’essenza dello zen le montagne furono di nuovo montagne e le acque di nuovo acque."
Ecco, mi sono detta, quest'uomo descrive chiaramente il processo che ha vissuto ed io penso pure di averlo capito, ma qualcosa mi dice che bene bene non posso averlo compreso. Infatti io non sono un maestro zen e non ho vissuto le elevatissime esperienze spirituali dei maestri zen: allora con umiltà devo ammettere con me stessa che magari "penso" di aver compreso, ma è impossibile che abbia compreso davvero e, anzi, non potrò capire mai bene, finché non farò un'esperienza che almeno somigli un po' alla sua (come il fatto del neonato e degli innamorati).
Questa cosa l'ho pensata nell'estate del 2008 e l'avevo lasciata là dove l'avevo pensata (in un'isoletta lontana in mezzo al mare).
Poi quest'estate, tra le montagne della Val di Susa, è successo qualcosa che me l'ha richiamata alla mente.
Stavo facendo yoga con alcuni amici all'aperto e con loro contemplavo, di fronte a noi, le cime delle montagne, il cui profilo si stagliava nitido contro il cielo bianco di nuvole.
Ad un certo punto, in piedi e a gambe aperte, ci siamo messi spalle alle montagne, abbiamo piegato il busto in avanti ed abbiamo deciso di guardare le montagne da un altro punto di vista: cioè a testa in giù attraverso le nostre gambe.
Le montagne, in tal modo, sembravano capovolte: le cime dei monti sono finite in basso e le valli sono finite in alto.
In quella posizione si vedeva chiaramente che anche le valli avevano una forma a punta e quelle punte, ora, miravano tutte verso l'altro. Ed ecco: un'improvvisa inversione figura/sfondo mi ha catapultata in un paesaggio innevato! Bianche porzioni di cielo nuvoloso, insinuandosi tra le punte delle valli capovolte, avevano dato vita a un susseguirsi di montagne bianche, e poiché ero su una specie di belvedere, senza ostacoli tra me, le montagne e il cielo, tutta quella neve (che in effetti era tutto cielo) arrivava fino a me!
Questa la potenza del nuovo punto di vista!
Le vere montagne non erano più montagne: erano diventate sfondo, erano diventare cielo. E così il cielo vero, a sua volta, non era più cielo, non era più sfondo, perché era diventato montagne e neve.
Poi piano piano, come (per fortuna) si usa nello yoga, mi sono alzata, mi sono girata e le montagne sono state di nuovo montagne ed il cielo di nuovo cielo.
L'esperienza è stata così forte che per un momento sono rimasta senza parole.
Poi mi è tornato alla mente il vecchio detto di Ch’ing-Yuan e mi è sembrato di comprenderlo per la prima volta.
Oh, certo: può darsi che nemmeno questa comprensione sia definitiva ed adeguata, perché io 'dentro' alla mente di Ch'ing-Yuan non ci sono mai stata.
E tuttavia il suo detto calzava così bene con la mia esperienza, che quando l'ho realizzato mi sono sentita percorrere da un brivido.
Cosa che può capitare, certo, quando ci si mette in canottiera, fermi, a fare yoga in mezzo alla neve...

martedì 18 settembre 2012

Il quaderno della gratitudine


Se cercherete su internet l'espressione "Quaderno della gratitudine", troverete moltissima gente che vi consiglierà questa pratica sostenendo, per un motivo o per un altro, che fa bene.
Se avete l'impressione che il genere di consulenti che dà questo genere di consigli non sia sempre particolarmente attendibile,  provate a rispondere a queste due semplici domande: 
- uno, può mai essere che un quaderno del genere faccia male?
- due, è astrattamente possibile che possa fare bene, per qualche motivo che al momento non posso neanche immaginare?
Spero di cuore che abbiate risposto no alla prima domanda e alla seconda, perché c'è una bella notizia per voi: il quaderno della gratitudine non è una pratica facoltativa. Se vogliamo intraprendere insieme questo viaggio verso la serenità, il quaderno della gratitudine ne è condicio sine qua non.
Non a caso "coltivare la gratitudine" è la prima  delle nostre regole d'oro della serenità.  Per questo motivo noi faremo il possibile per coltivarla sempre, fino a quando non ci sgorgherà spontanea dal cuore. Allora ne gioiremo, festeggeremo e beninteso... continueremo a coltivarla.
Ecco dunque in cosa consiste la pratica del quaderno della gratitudine.
Procuratevi un bel quaderno, con una foderina che vi piaccia, e tutte le sere (ma proprio tutte le sere), prima di andare a dormire, annotate minimo cinque cose di cui possiate essere grati per quel giorno (se l'ispirazione vi viene prima di sera e avete tempo e voglia di scrivere prima, fatelo pure: va benissimo).
Attenzione: non devono essere ringraziamenti formali. Devono essere ringraziamenti sinceri.
Il compito non è facile come sembra, ma avete tutta la giornata a disposizione, per stare attenti e per accorgervi di cose per le quali possiate essere grati alla vita: cose per le quali valga la pena essere vivi. Anche cose piccole, badate bene: non c'è bisogno di grandi avvenimenti. Danno più serenità tante piccole frequenti gioie che una grande gioia isolata. Bisogna però affinare il palato e renderlo sensibile ai sapori delicati, alle gioie piccole. Perché se noi non stiamo attenti, le cose da cui possiamo trarre le piccole gioie ci sfuggono, non le vediamo, non ce ne accorgiamo. Volendo essere un po' spicci, potremmo anche affermare che la serenità e la gioia vanno alimentate in buona parte con l'attenzione, e che dover tenere un quaderno della gratitudine "obbligatorio" è un modo per imporci di stare attenti, essere presenti, vivere pienamente il momento, anziché  vivere assorti  nei nostri pensieri, o in qualunque altrove mentale, che ci distolga dal qui e ora.
Vi dirò di più: tenere un brontolatoio, senza tenere contemporaneamente un quaderno della gratitudine, può essere una cattiva idea. Infatti significa dedicare del tempo ad un'attività che porta l'attenzione sugli aspetti  pesanti dell'esistenza, senza bilanciarla con un'attività di segno opposto, che invece porta l'attenzione sugli aspetti edificanti della vita: sui suoi doni, sulle cose che ci danno piacere.
Molti di quelli che consigliano pratiche di focalizzazione dell'attenzione sugli aspetti positivi dell'esistenza (adducendo che l'atteggiamento positivo innesca cicli positivi e attira circostanze esistenziali positive), dicono pure che focalizzarsi sugli aspetti negativi è invece deleterio.
Tuttavia io penso che sia più igienico concentrarsi sulle cose positive, senza disconoscere l'esistenza degli aspetti negativi della nostra vita. Circoscrivendo il tempo da dedicare al pensiero delle cose negative (in prospettiva di affrontarle al meglio), noi mettiamo un argine alla "vis espansiva della negatività", impediamo ai pensieri pesanti di invadere tutto il nostro spazio mentale, con la scusa che sono più urgenti, più importanti e così via. Non c'è niente di più importante della nostra gioia di vivere: ricercarla e ottenerla è una priorità.
Ecco perché io dico: da una parte il brontolatoio e dall'altra il quaderno della gratitudine. Perché se noi non abbiamo niente di cui essere grati, alla fine di una giornata,  vuol dire che stiamo trascurando un aspetto importantissimo dell'esistenza: il piacere di vivere. E allora dobbiamo rimboccarci le maniche e decidere cosa  fare.
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Il quaderno della gratitudine può essere considerato una semplice pratica di focalizzazione dell'attenzione sugli aspetti positivi dell'esistenza? Forse, sì, è anche questo, certamente, ma non è solo questo.
Chiunque abbia un buon rapporto con la propria spiritualità,  scrivendo ogni giorno frasi che cominciano con un "Grazie", per ogni cosa bella che gli ha portato la sua giornata, comincerà a percepire anche una possibile  portata spirituale di questa pratica, che dopo tutto non si allontana molto dall'atteggiamento di San Francesco verso Dio, nel Cantico delle Creature.
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Quando mi imbattei per la prima volta in questa pratica, più di dieci anni fa, stavo attraversando un periodo piuttosto triste della mia vita, in cui le mie giornate mi sembravano parecchio grigie e pesanti. Sì, ero grata a Dio di tutto ciò che avevo e che ero, ma era una gratitudine così, per modo di dire. Quasi un fatto di educazione.
Mi ricordo che stavo andando in treno a Firenze per lavoro, la mattina del giorno in cui decisi di cominciare.
Al solo pensiero, mi era venuto uno stato d'animo da caccia al tesoro. Dove le avrei trovate cinque cose di cui essere grata in una giornata di lavoro normale, cominciata peraltro sopra un affollatissimo treno di pendolari? Mi venne l'idea di chiudere il giornale e di guardare fuori dal finestrino. La campagna toscana, che correva sotto i miei occhi, con i suoi casolari ristrutturati, era stupenda nell'atmosfera autunnale. Che sollievo una simile visione, rispetto alle deprimenti notizie del giornale che mi stavo sciroppando fino a un  minuto prima (e che peraltro mi sciroppavo puntualmente tutte le  volte che prendevo quel treno!).
Scendendo alla stazione, in mezzo alla folla, mi accorsi che il sole, filtrando attraverso i fori della pensilina, disegnava  bellissimi riflessi di luce sui capelli delle persone che camminavano davanti a me nella nebbiolina del mattino: sembrava una scena da film. Ma guarda come siamo belli tutti noi in questo momento, pensai, e nemmeno ce ne rendiamo conto! Poi passai davanti alla solita edicola della stazione e vidi sulla copertina di un giornale una bellissima foto di Antonio Banderas e mi accorsi che non solo era proprio un bell'uomo, ma che ora aveva anche uno sguardo più maturo rispetto al passato, che lo rendeva più umano, più simpatico: un vero piacere a guardarlo!
Sbrigati i miei impegni a Firenze, mi allungai in un bel negozio del centro che vendeva carte pregiate e quaderni rilegati. Fu così che mi imbattei in un quaderno della gratitudine bellissimo, che mi dette  un'emozione positiva già solo a guardarlo, a toccarlo, ad annusarlo. Lo comprai e fui profondamente grata di avere in tasca abbastanza soldi , in quel momento, per potermelo permettere (consiglio a tutti di fare lo stesso, di risparmiare magari su un'altra cosa, ma di comprare il più fascinoso quaderno della gratitudine che ci si possa permettere;  di solito è un lusso abbordabile: costa pur sempre come un bel quaderno e non come una bella automobile!).
Per non farla lunga, sul treno del ritorno mi misi a scrivere i miei primi "ringraziamenti", per le minuscole sensazioni positive di quella mattina. In fondo le avevo tratte dai miei scenari usuali, che prima davo talmente per scontati, da considerarli ingiustamente banali e non aspettarmi più niente da loro.
L'uomo seduto di fronte a me approfittò di un momento di pausa per chiedermi se per caso fossi una scrittrice. Dissi: "No. Perché me lo chiede?" "Eh, - fece lui - perché così potevo raccontarle la mia storia. Io, da me, sa, non la so mica scrivere...".
Ascolto sempre volentieri le storie della gente (e forse, che mi piace, lo porto anche un po' scritto in faccia).
Fu così che passai il resto del tempo in treno ad ascoltare il racconto dell'avventurosa vita di questo signore. Non me la scorderò mai, quella storia. E se pure ciò dovesse accadere, non c'è problema: il riassunto di tutto  è scritto nelle prime pagine del mio primo quaderno della gratitudine (insieme ad altre quattro cose che mi resero grata la vita, quel giorno).
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Maria Michela Altiero, psicologa, counselor, life coach e istruttrice di pratiche di mindfulness
Contatti:
psicologa.altiero@gmail.com +39 3888257088


  

domenica 16 settembre 2012

Le "regole d'oro" della serenità


Già in altre occasioni, su questo blog, ho fatto riferimento ad alcuni principi che ho chiamato per comodità "Le regole d'oro della serenità".
Riepilogo queste cosiddette "regole" qui di seguito avvertendovi  anche che d'ora in avanti, quando un post farà riferimento ad una di esse, verrà contrassegnato con la corrispondente etichetta (e comunque, se qui sotto cliccate sopra a una "regola", verrete rimandati a tutti i post ad essa collegati)

Come potete notare, si tratta di principi molto ampi, in cui si possono far rientrare moltissime pratiche, tecniche, attività. Ognuno può declinarli secondo quanto gli è più congeniale.
Alcune pratiche possono risultare trasversali a più principi.
Personalmente, per esempio, sono una "camminatrice". Per me camminare è spesso un modo di avere cura del mio corpo e simultaneamente anche di evacuare la negatività e andare alla scoperta di territori sconosciuti. Quando mi va bene, perché magari finisco in un bosco, o di fronte a un panorama mozzafiato o in un altro posto dove la presenza della natura è potente, l'esperienza ha anche qualcosa di spirituale. E quando è così, mi sgorga dal cuore tanta di quella gratitudine, che non ho nemmeno bisogno di andarla a coltivare di proposito. Quanti ne ho toccati di principi in una sola passeggiata? Cinque! Ora si sarà capito perché sono diventata una camminatrice!
Capiterà di tanto in tanto, su questo blog, che per ognuno di questi principi tirerò fuori anche qualche strumento che personalmente considero utile per coltivarlo e per renderlo più presente nella nostra vita. Sono scelte personali e non universali; si tratterà solo di alcuni tra i tantissimi possibili strumenti con cui una persona può avere cura di quell'aspetto della sua esistenza. 
Avere cura del proprio spirito, per dire, può avere declinazioni molto diverse da persona a persona, secondo la religione di ciascuna, la sua cultura, il suo modo di vivere la spiritualità. Credere nei propri desideri e nelle proprie aspirazioni farà i conti con un ventaglio enorme di variabili individuali; e così via.
C'era una vecchia canzone degli scout, che diceva: "siamo arrivati da mille strade diverse, in mille modi diversi, in mille momenti diversi". Mi approprio di queste parole, come buon augurio rispetto al cammino che ci accingiamo a fare verso la comune meta della serenità ognuno a modo suo, ognuno con i suoi tempi, ognuno dal suo punto di partenza, con il suo bagaglio e le sue mappe.
E per stasera va bene così.

venerdì 14 settembre 2012

Influire sulla qualità delle proprie giornate. Il Brontolatoio.


Se siete di quelli che la mattina si svegliano pensando: "Oh, che bello, comincia una nuova sorprendente giornata tutta da vivere", risparmiatevi la lettura di questo post e tanti complimenti.
Se invece appartenete al gruppo di tutti gli altri, allora provate a far caso alle prime cose che vi passano di solito per la mente la mattina, appena aprite gli occhi. Anzi, ancora meglio: scrivetele su un quaderno, un quaderno apposito (il mio l'ho chiamato "il Brontolatoio", ma per esempio la mia amica Julia, che è una donna di classe, chiama il suo "le Pagine del Mattino").  Non c'è tempo di mettersi a scrivere, la mattina appena svegli? Bene. Allora scrivete questo: "ore 7.00 - non c'è tempo di scrivere. Ci vediamo alle ore...", e cercate di mantenere questo appuntamento quotidiano. Dedicatevi una pausa di solitudine, durante la giornata, e scrivete  di getto su questo quaderno qualunque cosa occupi spazio nella vostra mente e vi appaia, come dire, un tantino ingombrante, pesante, non esattamente edificante.
Il Brontolatoio non è un diario personale e nemmeno il romanzo della vostra vita. Non dovete sforzarvi di scrivere cose interessanti, intelligenti o artistiche. Consideratelo piuttosto uno dei tanti contenitori della raccolta differenziata rifiuti. Buttateci dentro i vostri rifiuti mentali e fatelo tutti i giorni, per due-tre pagine al giorno, come una funzione necessaria: necessaria allo stesso modo del rito di portare giù i sacchetti della spazzatura di casa. Provate a immaginare come sarebbe la vostra vita se il sacchetto dei vostri rifiuti organici, anziché stare sotto al lavello o sul balcone della cucina, stesse sempre con voi, sopra alla vostra testa e, bello pieno pieno, vi facesse compagnia per tutta la giornata! Il fatto che i nostri rifiuti mentali non abbiano una consistenza materiale, una vera e propria massa, non significa che non abbiano un loro peso sulla nostra testa (e direi anche un loro "colore" se non addirittura un loro "odore"): la loro presenza può incidere sensibilmente sulla qualità percepita delle nostre giornate.
Mettere nel Brontolatoio questi pensieri, significa collocare i nostri rifiuti mentali in un luogo appropriato: in un cestino della raccolta differenziata collocato altrove rispetto alla nostra testa.
Quest'attività non  risolve nell'immediato anche il problema dello "smaltimento" di questi rifiuti.  Proprio come avviene per i rifiuti materiali, il discorso dello  smaltimento è uno step successivo rispetto a quello della raccolta! Cominciamo da questa, e poi vedremo il da farsi.
Se dedicherete quotidianamente  un pochino del vostro tempo alla pratica del Brontolatoio, un po' alla volta vi accorgerete dei suoi effetti benefici, che però non sono né immediati né appariscenti: sono anzi differiti e diffusi.
Voi provate a praticare questa attività per qualche settimana e stabilite da voi che effetto vi fa e se cambia qualcosa, un po' alla volta, nella qualità percepita delle vostre giornate (la qualità percepita non riguarda gli eventi che vivete, riguarda piuttosto il vostro modo di viverli, quello che provate, quello che pensate, come reagite ad essi).
C'è chi dice che mettere nero su bianco i propri pensieri aiuta a metterli in ordine; c'è chi riferisce che a furia di lamentarsi sempre delle stesse cose tutti i giorni, alla fine si prende atto che è il momento di affrontare di petto certe situazioni rimaste in sospeso;  c'è chi trova finalmente le parole per ammettere almeno con se stesso sentimenti ed emozioni difficili da accettare apertamente; e c'è chi semplicemente sfoga sul quaderno la propria dose di negatività quotidiana ed evita così di scaricarla sulla prima persona che incontra, sul partner, sui figli, sui colleghi, sui clienti, migliorando così la qualità delle proprie relazioni.
Tempo fa mi è stato raccontato di una specie di supermanager in giacca e cravatta, che fu visto uscire di corsa da un bar perché era scattato l'allarme antifurto della sua spider fiammeggiante parcheggiata là fuori. Due scugnizzielli napoletani erano montati a bordo e stavano giocando ai padroni della macchina. Non l'avevano forzata, né avevano tentato di rubarla. Si erano solo seduti dentro: uno al posto di guida, le mani sul volante, e l'altro accanto, probabilmente a sognare la velocità, il vento nei capelli, gli sguardi delle donne. Una violazione di proprietà sì, ma in un certo senso rispettosa. Un gioco da ragazzi, un modo sui generis di rendere onore a un giocattolo così bello e irraggiungibile. Il supermanager si fece afferrare per pazzo, si mise a strillare, tirò fuori dalla macchina i ragazzini e cominciò a strattonarli, a insultarli, a prendersela con loro, con le loro madri, con Napoli, con i terroni tutti, finanche col Vesuvio che aveva smesso di lavorare invece di fare pulizia di tanta inciviltà. Poi prese fiato e salì in macchina per andarsene. Il suo l'aveva fatto, tutto quello che doveva dire l'aveva detto e, chissà, magari si era pure pentito di aver perso le staffe a quel modo. Fece manovra davanti al piccolo pubblico che aveva assistito alla scena e allontanandosi sentì i ragazzini gridargli dietro in napoletano una domanda molto personale accompagnata dalle risate della gente.
I ragazzini gli mandavano a chiedere, in maniera colorita e irriverente, se avesse evacuato regolarmente quella mattina.
Ecco.
Io mi ricordo della domanda dei due scugnizzielli, ogni volta che vedo qualcuno reagire in maniera esagerata a un piccolo inconveniente della vita. Mi chiedo: "Cosa sta evacuando, questa persona, qui e ora? Quanta rabbia preesistente, quante frustrazioni accumulate, quanta negatività allo stato libero che non ha trovato uno sbocco migliore?".




giovedì 13 settembre 2012

Le porte da lasciare aperte



C'è un detto secondo cui la felicità può arrivare da una porta dimenticata aperta. Credo che il detto abbia ragione; ma a questo punto, perché fermarsi alle porte "dimenticate" aperte? Perché non dare una spintarella alla sorte e lasciare volutamente aperta qualche porta ogni tanto? Massimo Troisi, per esempio, avrebbe suggerito di lasciar perdere le caffettiere da una tazza sola, perché quelle più grandi lasciano aperta una porta alla felicità, che nel caso è la felicità di un caffè in compagnia. Il discorso si fa ancora più intuitivo passando dalle caffettiere ai letti, perché di fatto è più per buon augurio che per comodità che i single dormono da soli in letti matrimoniali.Allora, a questo punto, senza grandi pretese, e partendo dal presupposto che frequenti piccole gioie possono dare più felicità di un'unica occasionale gioia grandissima, invito i lettori a suggerire qualche azione che secondo loro equivale a una porta lasciata aperta alla felicità .

Comincio io:

  •  a partire dal mese di aprile, tenere fisso nella bauliera dell'automobile un costume da bagno e un asciugamano per il mare (per favorire la gioia di rubare un bagno fuori programma un giorno che il mare è irresistibile);
  • tutto l'anno tenere nella bauliera dell'auto un aquilone (per favorire la gioia di diventare l'idolo dei bambini in un giorno di vento);
  • tenere sempre in borsa o in tasca una cosa molto particolare, che vi rispecchi parecchio e da cui tuttavia vi stacchereste senza fatica (per favorire la gioia di lasciare il vostro segno, come Zorro, tutte le volte che la vita vi chiede di lasciare un segno del vostro passaggio attraverso una "cosa"... eh, questa è una gioia fine, ma per capirla davvero bisogna provarla...).

E adesso attendo suggerimenti. Forse ci metteranno una vita ad arrivare. E se non arriveranno oggi, e non arriveranno domani e nemmeno dopodomani... beh, dopo tutto quello che ci siamo detti, non mi dispererò: vorrà dire che considererò questa nota stessa una... porta lasciata aperta!
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I doni tardivi

Può capitare a tutti di ritrovare una cosa preziosa cercata per anni, quando ormai non serve più; ricevere una dichiarazione d'amore da un idolo giovanile, quando ormai si è sentimentalmente appagati; trovare la tanto cercata casa dei sogni nella città d'origine, quando ormai si sono  messe radici altrove; o  semplicemente ricevere in dono un luccicante vecchio flipper, sogno di tutta l'infanzia, quando ormai si hanno 50 anni e non si ha né dove metterlo né più la voglia di giocarci. Cosa si prova in questi casi? Un miscuglio di sentimenti contrastanti:  una gioia momentanea, che dura il tempo di rendersi conto che il tempo è scaduto, un po' di nostalgia per il vecchio desiderio di un tempo (perché essere 'desideranti' è un po' brutto e un po' bello, e col tempo ci si dimentica il brutto...), un po' di rimpianto per il ritardo con cui il sogno si è realizzato (perché c'è un senso di inutilità difficile da tollerare), un senso di liberazione rispetto a un bisogno che ormai non c'è più, una vaga simpatia per il vecchio oggetto di desiderio, finalmente materializzato tra le nostre mani (e che ci siamo portati dentro per così tanto tempo, da essere diventato ormai parte di noi). Se poi tutto questo ci faccia sentire bene o male dipende da come stiamo ora. A volte sembra proprio che, quando finalmente stiamo bene con noi stessi, il passato venga a chiederci scusa per averci fatto soffrire, portandoci cose del genere: ci porta ciò che ci è mancato allora, proprio oggi che non ci manca più. Ma sembra anche che un po' ci sfidi, ci metta alla prova, ci chieda: sei sicuro sicuro di stare proprio bene oggi? Niente rimpianti?  Ognuno si dà la risposta che vuole o che può. Per quanto mi riguarda,  ho idea che la misura del benessere attuale sia nel senso di gratitudine. Se uno prova gratitudine anche per un dono tardivo è segno buono. Se invece non prova gratitudine, ma magari rabbia o dolore, allora è come se il passato lo stesse invitando a riflettere sul suo presente. E magari questo può essere il vero dono del nostro passato. E a questo punto forse un dono tempestivo...
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