domenica 12 giugno 2016

Gabbie reali e gabbie mentali. Il potere liberatorio della consapevolezza

Nell'immagine un dipinto di Merab Gagiladze
C'è un racconto di Jorge Luis Borges, nel libro L'Aleph, che parla di un uomo che era prigioniero in una gabbia  e che condivideva la sua sorte con un grosso felino maculato, chiuso nella gabbia accanto alla sua.
Ho letto questo racconto più di vent'anni fa e da allora non l'ho mai più preso in mano. Proverò a riassumervelo, così come mi esce oggi dalla tastiera, senza alcuna pretesa di fedeltà all'originale (che peraltro ho deciso di non riguardare per non perdere l'ispirazione).
Facciamo che l'uomo era una specie di sacerdote di una fede imprecisata e il felino un giaguaro o qualcosa di simile. Per buona parte della storia l'uomo si dispera non tanto per il fatto in sé di essere prigioniero e condannato a passare il resto dei suoi giorni in una gabbia, quanto perché questa condanna lo fa sentire tradito e abbandonato dal suo dio. Questo suo dio  gli aveva infatti promesso una rivelazione prima della morte, ma ora sembrava essersi rimangiato la parola. Lo aveva condannato a marcire in una cella di isolamento: che rivelazione poteva mai arrivargli in quelle condizioni?
Mentre il giaguaro passava le sue ore camminando avanti e indietro nella gabbia,  l'uomo trascorreva il suo tempo tra mille pensieri tormentosi.
Facciamo conto che il suo dialogo interno fosse più o meno così: "Cosa ho fatto di male, per meritarmi questo? Come può essere che il mio Dio mi abbia tradito? Se la mia fine è questa, tutta la mia vita è senza senso. Ho dedicato tutte le mie forze, le mie risorse, i migliori anni della mia vita a servire fedelmente il mio Dio pur di ottenere questa rivelazione. E questo è il risultato? Che sorte ingiusta! Com'è possibile? Cosa avrei dovuto fare di diverso? Forse avrei dovuto... Forse avrei potuto... Forse dovevo essere meno... O forse dovevo essere più... Forse è colpa del tale...  Forse è colpa di quella volta che... Sì, mi ricordo bene di quella volta che... e di quell'altra che... e di quell'altra ancora... Oh, che dolore, che rabbia, che disperazione... No, è tutta colpa mia... Avrei dovuto capire che.... Avrei dovuto pensarci per tempo... Avrei dovuto fare come il tale... (lui sì che...) Sono il solito questo... Sono il solito quello... Perché sono nato così? Mi odio... Sono un fallimento...  Che ne sarà di me? Che campo a fare?  Con questo stupido giaguaro, poi... Odio tutto questo... Non posso sopportare una simile sfortuna... Non è giusto che le cose siano andate così proprio a me... "
Insomma l'uomo era tormentatissimo, non vedeva soluzioni al suo problema e si sentiva intrappolato in una condizione disperata e senza vie d'uscita.
La cosa che più colpisce di questa storia è l'evidenza che l'uomo era prigioniero di due gabbie: una gabbia reale e una gabbia mentale.
Stare in gabbia è una condizione spiacevole per definizione. Tuttavia il racconto non parla mai di maltrattamenti da parte dei carcerieri, di digiuni, torture o altri tormenti imposti al prigioniero dall'esterno. E anzi precisa che, per la scala di valori di quell'uomo, la prigionia sarebbe stata sopportabile se solo non avesse interferito con il suo desiderio di ottenere la rivelazione.
La sofferenza descritta è tutta interiore: la lotta disperata di una mente che oscilla tra la brama di qualcosa  da cui  crede dipenda la sua felicità (un oggetto, una condizione, uno stato - in questo caso l'ottenimento della rivelazione) e il rifiuto, l'insofferenza, l'odio  verso tutte le condizioni considerate impeditive della propria felicità.
Qualcuno potrebbe addirittura osservare che per la maggior parte della storia  l'uomo non stava tanto nella gabbia reale, quanto piuttosto nei luoghi mentali in cui lo trasportavano i suoi pensieri. Un po' nel passato, un po' nel futuro, un po' nel condizionale.
E ancora si potrebbe notare la totale assenza sulla scena di altri personaggi, come per esempio aguzzini e giudici. Se c'è una sofferenza inflitta all'uomo da aguzzini e giudici, questi appartengono alla  gabbia mentale più che alla gabbia reale. Pensieri  che torturano senza tregua. Giudizi impietosi della mente che valuta, critica, rimprovera, condanna senza appello.
Come va a finire la storia di quest'uomo?
Lo vedremo tra un momento. Prima facciamo un intervallo.

***
Vi invito - ora proprio ora - a prendervi una brevissima pausa di intimità con voi stessi e a fare un piccolo esercizio di consapevolezza, della durata di pochi minuti.
Assumete una posizione eretta e vigile (ma non rigida), seduti o in piedi. Provate a sentire il contatto del vostro corpo con le superfici di appoggio, dei vostri piedi con il pavimento, del bacino con il sedile, e la forza di gravità che vi tiene ancorati  e saldi sulla vostra base. Se siete in piedi tenete le ginocchia morbide e in ogni caso provate a sentire la vostra colonna allineata che vi sostiene.
Portate ora gentilmente l'attenzione all'interno di voi stessi, e restate ancorati al momento presente osservando il vostro respiro. Sentite l'aria che entra ed esce dal corpo, l'addome che si gonfia ad ogni inspirazione e si sgonfia ad ogni espirazione. E provate a chiedere a voi stessi: 
- Che pensieri ci sono nella mia mente in questo momento?
- Che tipo di sentimenti ci sono in questo momento nel mio cuore?
- Che sensazioni fisiche provo nel mio corpo in questo momento?
Accogliete qualunque risposta dovesse emergere a queste domande con curiosità, apertura e accettazione, e prendetene nota. Non forzate niente. Non pretendete che arrivino risposte "giuste". L'unica risposta giusta per questo esercizio è farlo; è riproporvi di prendere atto intenzionalmente di tutto ciò che state  realmente  vivendo a livello cognitivo, emotivo, sensoriale; e riuscire ad osservare ciò che emerge così com'è, senza giudicarlo, senza fretta di cambiarlo, o eliminarlo. Standoci insieme in modo consapevole.
***
Fine dell'esecizio.
Non ha importanza quale sia stato il contenuto effettivo della vostra esperienza soggettiva.
Qualunque cosa abbiate appena osservato nel vostro panorama interiore, in tanto siete riusciti a vederla in quanto avete assunto una certa posizione rispetto alla vostra esperienza. Una posizione, per così dire, un po' più distante, più decentrata.
Qualunque cosa, dopo tutto, per essere vista, per diventare oggetto della nostra osservazione, deve essere messa a una certa distanza. Altrimenti non riusciamo a vederla: ci appanna semplicemente la vista.
Questo vale in particolar modo per le nostre gabbie mentali, per i pensieri che ci tengono prigionieri ed alimentano i nostri stati di malessere emotivo, di tensione fisica, e che ci sottraggono energia vitale, ci impediscono di vedere le opportunità che la vita ci offre e ci mette sotto il naso, e a cui non facciamo caso, a cui non ci accostiamo, a cui non ci apriamo, chiusi come siamo negli spazi angusti della nostra sofferenza.
***
Ed ecco come va a finire il nostro racconto.
L'uomo in gabbia a un certo punto toccò il fondo della sua infelicità, e si rese conto che - a prescindere da ciò che lui avrebbe voluto o non avrebbe voluto - le cose stavano esattamente come stavano e non c'era  niente da fare.
Questa era la sua gabbia. Quella era la gabbia del giaguaro.
Qua stava lui. Là stava il felino.
La cosa era senza senso, ma da qui non si usciva.
Questa presa di coscienza, quest'accettazione della realtà (che non è un farsela piacere, e nemmeno un arrendersi passivamente alla sfortuna, ma è piuttosto un essere d'accordo sul fatto che la realtà è quella e non un'altra), liberò l'uomo dalla più terribile delle sue due gabbie, e cioè la gabbia mentale.
Egli lasciò andare finalmente i pensieri che gli inondavano la mente, rapendolo, accecandolo, portandolo lontano dal qui e ora,  e tornò in uno stato di totale presenza nel momento presente, nella sua gabbia reale, così com'era.
Ed ecco che a quel punto avvenne una svolta.
Finalmente l'uomo si mise ad osservare attentamente il manto del giaguaro, che per tanto tempo aveva tenuto sotto gli occhi e a cui non aveva mai prestato una particolare attenzione.
E un po' alla volta cominciò ad accorgersi che i disegni della pelliccia maculata non erano casuali. Non  erano semplici macchie o ghirigori.
Erano i caratteri grafici con cui era scritto un messaggio segreto!
La rivelazione che tanto aspettava era lì, proprio sotto i suoi occhi.
E solo ora si rendeva conto che era sempre stata lì, davanti a lui e solo per lui.
Nessun altro, infatti, avrebbe potuto conoscerla.
Il suo Dio non l'aveva tradito.
La promessa divina era stata mantenuta.
L'uomo sentì allora il cuore inondarsi di gioia.
Questa era la sua gabbia. E quella era la gabbia del giaguaro.
Qua stava lui. E là stava il felino.
Da qui non si usciva.
Certo, da qui non si usciva.
Ma era cessato il tormento.
E la sua vita era colma di senso.
***

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Dr. Maria Michela Altiero psicologa e istruttrice di protocolli mindfulness based
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