domenica 12 aprile 2015

Mindfulness. Un pasto consapevole in un giorno di raffreddore


Da che la mindfulness è entrata nella mia vita, mi piace molto la mattina alzarmi dal letto e dirigermi verso un pasto consapevole.
Se ho deciso di portare più consapevolezza nella mia vita, niente di strano se ne porto un po' anche a tavola, ogni tanto. E la mattina per me è un buon momento.

Una delle cose che amo mangiare a colazione è una mela tagliata a pezzetti dentro allo yogurt bianco.
Mi piaceva già da prima che mi mettessi a giocherellare con le mele durante i pasti consapevoli. Giocherellare ho detto. Ma sì. Alla fine un pasto consapevole è anche questo: essere talmente presenti all'esperienza da prenderci gusto, come se fosse un gioco.
Se dovessi dire a che gioco assomiglia, propenderei per la caccia al tesoro. La rotondità della mela, la non totale rotondità della mela, il picciolo, la cavità peduncolare, la calicina. Tutta roba sensibilmente reale a cui faccio caso diversamente, da quando il mio rapporto con le mele è diventato più consapevole. 

Il rosso della buccia. Il rosso non uniforme della buccia: i puntini, le righe, quel po' di giallo che pure c'è e che non è dappertutto lo stesso giallo (e anzi a volte non è nemmeno più giallo...). L'opacità che diventa gradualmente  lucidità, a mano a mano che strofino i polpastrelli sulla buccia. E poi certo il freddo della mela, se l'ho presa dal frigorifero, il suo profumo, il suo peso, ed anche il rumore che fa, quando la passo da una mano all'altra. 

Chi crede che la superficie di una mela sia uniformemente liscia come quella di una palla da biliardo, provi a farsela rotolare piano piano sulle guance o sulle labbra, o anche a farsela girare dentro i palmi delle mani tenendo gli occhi chiusi. Forse avrà una sorpresa.
È sorprendersi ancora e ancora per ciò che c'è, mentre c'è, che rende i nostri momenti interessanti,  significativi, importanti, e la nostra vita un viaggio di continue scoperte, meritevole di tutta la nostra attenzione, presenza, interesse.

A volte sono più che altro gli stimoli forti, i fatti eccezionali, i viaggi in territori lontani (che si tratti di viaggi veri e propri o di viaggi in senso metaforico) che ci ricordano cosa significhi fare scoperte e vivere con un senso di sorpresa. Praticare la consapevolezza nel quotidiano ci consente di sperimentare scoperte e sorprese, anche in momenti in cui apparentemente non sta accadendo nulla

***

Ieri mattina la mela non aveva sapore.
Rigiravo in suoi pezzetti in bocca, facendoli andare sotto al palato, a destra e a sinistra della lingua, un po' più avanti e un po' più indietro. Ne ho letto ad occhi chiusi dentro la bocca ogni aspetto concernente la forma, gli spigoli, la consistenza, la temperatura. Ho sentito il rumore che facevano sotto i miei denti, mentre li masticavo attentamente, e li ho sentiti secernere liquido sotto l'effetto del pestaggio. 

Ma niente sapore. Se un po' di dolce c'era, era talmente poco, da essere sopraffatto dalla diluizione nello yogurt, che a sua volta non sapeva di niente (era pura consistenza, scioglimento, mobilità, inseguimento) e non era nemmeno acido. 

Gusto e olfatto avevano conosciuto il silenzio come un udito condotto a un concerto senza musica.
O come il silenzio di un sordo a un concerto (esperienza  rappresentata peraltro magistralmente nel film La famiglia Bélier).

Ma, a parte ciò, cos'era successo alla mia mela di ieri?
Vivere attentamente il suo non sapore è stato anche vivere la mia delusione e un vago senso di tradimento.

Sorprendersi infatti non significa necessariamente vivere belle sorprese. Si vive quello che c'è.
Ieri c'era il raffreddore. Ed è stato con me tutto il giorno, offrendomi un'esperienza del mondo attraverso il suo filtro: una specie di carta assorbente che tratteneva gli odori e i sapori, e mi passava un mondo di cose ripulite, che non sapevano più di niente.

A pranzo non avevo in programma un pasto consapevole. E tuttavia sapevo che mi sarebbe toccato un pasto col raffreddore, cioè un pasto insapore e inodore.
Per cui è stata la fame a spedirmi in cucina e non certo la voglia.

Avvertire la fame è accostarsi ad un sentire del corpo che nelle società dell'abbondanza tendenzialmente non si tiene per molto tempo. Appena abbiamo fame mangiamo qualcosa, e poi magari dopo ci trastulliamo con mille domande sul fatto se era vera fame o fame nervosa, e insomma quelle cose lì.

Per cui alla fine starci un po' insieme, con questa fame, e sentirla - non tanto con il pensiero quanto con l'esperienza sensoriale diretta - e quindi cercarla nel punto del corpo in cui si manifesta con più evidenza, osservare come si presenta, cosa provoca qua o là, e portare attenzione anche alla pressione delle  forze che dentro di noi ci spingono a risolverla, ad eliminarla, può insegnarci molto riguardo a noi stessi e a ciò che c'è dietro (o anche dentro) ai nostri comportamenti alimentari più scontati.

Fatto sta che ho aperto il frigorifero ed ho tirato fuori un mazzetto di carote, tre finocchi e due fascetti di ravanelli.
L'abbinamento dei colori era molto piacevole: bianco, arancione, rosso, verde. E pensare che sono tutte cose che crescono sotto terra. Tanto colore ad un livello dell'esistenza a cui l'occhio normalmente non accede. Bisogna mettersi a scavare per accorgersene, non basta restare in superficie.

Ecco un tipico pensiero da psicologa, avrebbero detto le mie figlie, riportandomi al fatto che ora stavo con la testa dentro al frigorifero, luogo davvero sconsigliabile per filosofeggiare quando si ha il raffreddore.

È che ne avrei inventate mille, pur di sottrarmi alla noiosa preparazione di quel pasto.
Una cosa molto interessante che ho scoperto nel mio panorama interiore, da che pratico la mindfulness, sono le tante sfumature fisiche e mentali che possono racchiudersi nella sbrigativa definizione di noia. Cos'è la noia veramente? Dove sta nel corpo, che sensazioni dà, che succede a tenersela un po'? Quello che succede a me, di solito, è questo. Appena mi metto ad osservare con curiosità la mia noia, e la rendo oggetto della mia attenzione, non mi dà più tanto fastidio. Diventa in un certo senso interessante pure lei, nonostante sia noia.



Ma le carote
Ho cominciato a pulirle con attenzione e quasi con rispetto, notandone le zone barbose e quelle glabre, le piccole grinze orizzontali che ne decoravano la superficie, e poi la sezione circolare che diventava visibile, una volta tagliato il ciuffo verde e la parte superiore della carota stessa.
C'è un mandala nella sezione di ogni carota. Lo sapevate? Come anche di ogni ravanello e di ogni finocchio, se è per questo. Sono i tipici disegni della natura, regolari e unici, presenti molto spesso in radici, ortaggi, fiori, frutti, e che tuttavia tante volte non vediamo, perché addentiamo frettolosamente le cose con l'unico intento di mandarle giù. 

Cadendo nell'acqua in cui li lavo fanno rumori diversi le carote, rispetto ai ravanelli e ai finocchi, e lo stesso quando li tolgo dall'acqua e li riverso nel colapasta per sgocciolarli. 

Servirebbe a qualcosa dare un nome ad ogni rumore, e descriverlo per come è fatto? Servirebbe solo forse per scriverlo qui. Non mi sono sforzata di cercare le parole, mi sono semplicemente messa in ascolto. Ho chiuso gli occhi e fatto spazio ai suoni, che fosse acqua corrente di rubinetto, o zampillo dovuto al tuffo di una carota, o vibrazione del colapasta nel lavello mentre ci buttavo dentro un finocchio.

"Ora vi mangio, altro che concerto. Ho fame!". Questo pensiero l'ho riconosciuto chiaramente. Forse  gridava più forte di tutti i suoni. Ma c'era una sfida in corso: scoprire le qualità di carote, finocchi e ravanelli nella mia bocca, prima ancora che nel mio stomaco, in assenza di ogni informazione proveniente da gusto e olfatto. Insomma, niente corse. 

Ho guardato una carota che più arancione non si poteva.
Era questo? Era solo colore? Non che non fosse abbastanza, intendiamoci. Ma non era solo questo. Infatti era anche croc croc sotto i denti, e vago intreccio di fibre che secernevano un succo. Ma certo: succo di carota! Poi una piccola sorpresa, giusto un attimo prima di deglutire. Un lieve pizzicorino quasi in gola, come un sapore nuovo. Che fosse questo il vero sapore di una carota? Che fosse stato necessario proprio un giorno di raffreddore per scoprirlo? Non saprei.

Ciò che invece so quasi con certezza, arrivati a questo punto, è che difficilmente sopportereste ancora a lungo la descrizione di questo pasto. Per cui direi di finirla qui. 
Che un ravanello pizzichi, non è difficile da immaginare. E che possa pizzicare un po' persino un finocchio, magari ormai ce lo aspettiamo. Tutto questo c'è stato e anche altro (persino un secondo piatto...). Ma vi risparmio la cronaca.

E il finale?
In verità non sarebbe molto mindfulness né pretenderlo, né aspettarselo, né chiamarselo. 
E meno che mai prometterlo! 
Mindfulness è portare l'attenzione intenzionalmente nel momento presente, stare completamente nel qui e ora.
Se ora stiamo con la testa nel finale che verrà, allora non siamo veramente qui, su questo rigo, in questo momento!

Però devo anche dire che, nella realtà, un buon finale c'è stato. 
Perché tacerlo, allora, visto che fa parte della storia?
Lo trovate più sotto, dopo la foto del mio pinzimonio.
Forse è una chiusura. Forse è un capitolo a  sé.


Dai e dai, a fine giornata il raffreddore si è arreso.
L'ho capito chiaramente la sera, rientrando a casa.
Ho annusato l'aria e mi sono accorta che non era più filtrata.
Potevo distinguere nitidamente il profumo dei finocchi.

Ecco il piccolo trionfo della guarigione.
Eccomi pronta per una cena normale. Finalmente.




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