Ero entrata nel negozio per un altro motivo e, tra una cosa e l'altra, avevo accennato al commesso che quella cosa, con tutta la buona volontà, non riuscivo proprio a sentirla mia. Allora lui mi ha detto: "Cara signora, perché non me l'ha riportata? Gliel'avrei cambiata senza problemi!"
Così sono corsa subito a casa a prenderla, lui me l'ha cambiata con un'altra che mi piaceva e insomma Amen: lieto fine.
Questa storia è talmente minima che forse non meriterebbe nemmeno di essere raccontata, se non fosse per la domanda del commesso. Perché non ci avevo pensato subito a riportargli la merce per farmela cambiare?
La risposta è che tecnicamente il prodotto non aveva difetti ed io non potevo pretendere che me lo cambiasse. Ma il fatto che non potessi "pretendere" il cambio non implicava che non potessi almeno "sperarlo".
Ed io non l'avevo nemmeno sperato!
La conclusione generale che ne ho tratto è che nella vita forse non possiamo sempre "pretendere" un lieto fine per le nostre situazioni esistenziali insoddisfacenti. Però possiamo almeno "sperarlo", ritenerlo possibile.
Questo è importante, perché in effetti agiamo diversamente quando riteniamo possibile un certo esito, rispetto a quando lo riteniamo impossibile.
Agendo "come se" una certa cosa potesse anche verificarsi, la rendiamo più probabile di quando agiamo sul presupposto che quella cosa non si verificherà mai.
Da qui prende spunto un pensiero lunghissimo, che non pretendo che chi è già arrivato fin qui si metta a leggere (ma confesso che oserò sperare che prima o poi qualcuno lo faccia!).
A volte noi desideriamo qualcosa, ma pensiamo che non ci spetti, che non ce la meritiamo, che non potremo ottenerla mai. E allora non ci proviamo nemmeno ad averla. Non la chiediamo a Dio, non la chiediamo alla sorte, non la chiediamo alle persone. Confessiamo a noi stessi un nostro desiderio segreto e ci diciamo da soli di no.
E questo è un ottimo sistema per assumerci il 100% della responsabilità delle nostre frustrazioni.
Ora non so cosa possa venire in mente a chi legge. Se gli viene in mente la volta che desiderò tanto uccidere la sua Prof., gli direi certo che fece molto bene a tenere il desiderio per sé e a dirsi di no da solo. E la chiudiamo qua. Anzi, la chiudiamo subito qua anche con tutte le altre possibili varianti del crimine.
Restando invece nel limitato campo del lecito, consideriamo come a volte siano superflui e anche controproducenti i limiti che mettiamo alle nostre speranze.
La prima cosa che mi viene in mente, è la storia, che a volte si sente dire, che Dio non va disturbato con richieste sceme. Questo implicherebbe che non si può pregare Dio per farci superare un esame o per farci prendere un treno al volo, o per ottenere altri miracoletti di piccolo calibro come questi. Magari sappiamo anche che quei risultati, a rigore, non ci spetterebbero (abbiamo studiato superficialmente, siamo usciti di casa mezz'ora dopo l'orario previsto). E allora? Se non speriamo in un miracoletto e non lo chiediamo, solo perché pensiamo che non ci spetti, secondo me ci facciamo del male da soli, perché praticamente nemmeno al Padreterno concediamo di aiutarci!
Ho tirato in ballo Dio, solo per fare un esempio. Ma la questione non è specificamente religiosa.
Sentirsi legittimati a desiderare cose che non possiamo pretendere, e sperare di ottenerle anche se non ci spettano, è in qualche modo un sano atto di fede. Ma non di fede in quanto fede religiosa, bensì di fede in quanto fiducia in genere nella vita, nella sorte, nelle persone, in un qualcosa di benigno insomma che ci circonda e ci accompagna, e che misericordiosamente ogni tanto perdona i nostri limiti e ci manda pure qualcosa di buono che pensiamo di non meritare.
Questa storia è talmente minima che forse non meriterebbe nemmeno di essere raccontata, se non fosse per la domanda del commesso. Perché non ci avevo pensato subito a riportargli la merce per farmela cambiare?
La risposta è che tecnicamente il prodotto non aveva difetti ed io non potevo pretendere che me lo cambiasse. Ma il fatto che non potessi "pretendere" il cambio non implicava che non potessi almeno "sperarlo".
Ed io non l'avevo nemmeno sperato!
La conclusione generale che ne ho tratto è che nella vita forse non possiamo sempre "pretendere" un lieto fine per le nostre situazioni esistenziali insoddisfacenti. Però possiamo almeno "sperarlo", ritenerlo possibile.
Questo è importante, perché in effetti agiamo diversamente quando riteniamo possibile un certo esito, rispetto a quando lo riteniamo impossibile.
Agendo "come se" una certa cosa potesse anche verificarsi, la rendiamo più probabile di quando agiamo sul presupposto che quella cosa non si verificherà mai.
Da qui prende spunto un pensiero lunghissimo, che non pretendo che chi è già arrivato fin qui si metta a leggere (ma confesso che oserò sperare che prima o poi qualcuno lo faccia!).
A volte noi desideriamo qualcosa, ma pensiamo che non ci spetti, che non ce la meritiamo, che non potremo ottenerla mai. E allora non ci proviamo nemmeno ad averla. Non la chiediamo a Dio, non la chiediamo alla sorte, non la chiediamo alle persone. Confessiamo a noi stessi un nostro desiderio segreto e ci diciamo da soli di no.
E questo è un ottimo sistema per assumerci il 100% della responsabilità delle nostre frustrazioni.
Ora non so cosa possa venire in mente a chi legge. Se gli viene in mente la volta che desiderò tanto uccidere la sua Prof., gli direi certo che fece molto bene a tenere il desiderio per sé e a dirsi di no da solo. E la chiudiamo qua. Anzi, la chiudiamo subito qua anche con tutte le altre possibili varianti del crimine.
Restando invece nel limitato campo del lecito, consideriamo come a volte siano superflui e anche controproducenti i limiti che mettiamo alle nostre speranze.
La prima cosa che mi viene in mente, è la storia, che a volte si sente dire, che Dio non va disturbato con richieste sceme. Questo implicherebbe che non si può pregare Dio per farci superare un esame o per farci prendere un treno al volo, o per ottenere altri miracoletti di piccolo calibro come questi. Magari sappiamo anche che quei risultati, a rigore, non ci spetterebbero (abbiamo studiato superficialmente, siamo usciti di casa mezz'ora dopo l'orario previsto). E allora? Se non speriamo in un miracoletto e non lo chiediamo, solo perché pensiamo che non ci spetti, secondo me ci facciamo del male da soli, perché praticamente nemmeno al Padreterno concediamo di aiutarci!
Ho tirato in ballo Dio, solo per fare un esempio. Ma la questione non è specificamente religiosa.
Sentirsi legittimati a desiderare cose che non possiamo pretendere, e sperare di ottenerle anche se non ci spettano, è in qualche modo un sano atto di fede. Ma non di fede in quanto fede religiosa, bensì di fede in quanto fiducia in genere nella vita, nella sorte, nelle persone, in un qualcosa di benigno insomma che ci circonda e ci accompagna, e che misericordiosamente ogni tanto perdona i nostri limiti e ci manda pure qualcosa di buono che pensiamo di non meritare.
A Napoli, la filosofia dell' "aiùtati che Dio t'aiuta" risponde un po' a questo tipo di atteggiamento. Magari con qualche distorsione dovuta alle condizioni estreme in cui a volte la gente si trova.
A tal proposito, mi viene in mente una volta che, tanti anni fa, mi trovai bloccata nel traffico in una strada del centro di Napoli. Avevo un appuntamento importante in una piazza che era lì a un tiro di schioppo, ma per come stavano le cose rischiavo proprio di arrivare fuori tempo massimo.
C'era un vigile, lì sotto il sole, tutto sudato, che si dava tanto da fare ma che, per quanto facesse, non riusciva a sbloccare la situazione.
A un certo punto mi resi conto che, se non ci fosse stato il vigile,
io avrei potuto imboccare una certa strada contro mano e tirarmi fuori dal problema con una piccola irregolarità. Dopo tutto "a mali estremi, estremi rimedi", e dopo tutto cento o duecento metri contro mano, a Napoli (almeno all'epoca), erano considerati peccato veniale.
Ma c'era il vigile.
Ed era pure visibilmente alterato.
Potevo sperare di passarla liscia?
Pretenderlo non potevo pretenderlo, ma sperarlo sì!
Allora scesi dalla macchina, andai dal vigile e gli dissi tipo: "Per piacere, me lo dà il permesso di passare di là, anche se è contro mano, così non arrivo tardi al mio appuntamento?".
Il vigile, tutto rosso in faccia, si mise a gridare.
Ma non gridò: "Signorina, che razza di proposta è questa da fare a un onesto vigile? Torni subito in macchina!".
No, gridò tutt'altro. E cioè disse: "Signorina, ma faccia quello che vuole! Io non ce la faccio più! Qua state tutti a chiedermi cose strane! Ce ne fosse uno che fa cose normali, in questa città! Io non chiedo altro che vi togliate di mezzo, tutti quanti! Sparite! Chiunque sparisce, comunque lo fa, è benedetto!"
Così feci il mio bravo tratto di strada contro mano e, con la benedizione del vigile, arrivai puntuale al mio appuntamento (... e, visto che l'ingorgo non è poi durato vent'anni, qualcosa di simile probabilmente avranno fatto pure gli altri, sorretti da analoga fede nell'eventualità che le situazioni di stallo, in un modo o nell'altro, si possono anche sbloccare...).
"Non importa quello che stai guardando
ma quello che riesci a vedere."
(Henry David Thoreau)