domenica 9 febbraio 2014

E della rabbia, che me ne faccio?






Care Signore,
Vi piacerebbe essere così?
Vi siete mai sentite così?
Vi hanno mai fatte sentire così?

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Non sono poche le donne che temono di poter somigliare a Medusa, quando si arrabbiano.
Tra avere un diavolo per capello e avere una capigliatura di serpenti, non corre poi tanta differenza.
E così anche il potere distruttivo della  nostra collera, quando si manifesta in maniera violenta, somiglia tanto alla distruttività dello sguardo di Medusa, capace di pietrificare ogni essere vivente, e così di distruggere le relazioni.
Medusa simboleggia un femminile negativo e distruttivo, che può venir fuori anche da una donna stupenda, sotto l'effetto dell'ira.
E non a caso la leggenda vuole che fu proprio l'ira di una dea, Atena, a trasformare la povera Medusa, da fascinosa a mostruosa. Il che aggiunge un altro elemento alla nostra metafora, suggerendo cioè che una vera dea (come una vera signora), quando si arrabbia, non può tollerare di avere in sé gli aspetti brutti, distruttivi e poco dignitosi che una tale emozione tira fuori ed abbia bisogno di sbarazzarsene al più presto, per non vederli e non sentirli.
Atena  infatti fa proprio così: li colloca fuori di sé e li carica su Medusa; da una parte c'è il mostro e dall'altra la dea; da una parte la  rabbia terribile, vergognosa e inaccettabile, dall'altra la bellezza, la dignità e lo stile.
Nel suo libro The Heart of Religion, Phiroz Mehta, dice:
"La prima reazione di fronte a uno stato spiacevole e negativo è quella di sbarazzarsene.
Posso tentare di dimenticare o ignorare, di sopprimerlo o fuggirlo: per disperazione posso anche tentare di distruggerne la causa. Invece devo essere pienamente osservante e spassionato ed assorbirlo con delicatezza nella mia psiche, così da consentire che il mio male si trasformi in comprensione."
Questo significa che, per fare i conti con la nostra rabbia, dobbiamo innanzitutto riconoscerla, tollerare il disagio che ci provoca, e accettarla così com'è, senza agirla d'impulso e senza cercare di sbarazzarcene quanto prima.
Il che non significa inghiottirla, bensì entrare in uno stato che ci consenta di padroneggiarla, di utilizzare cioè  la sua carica energetica per cambiare la situazione che stiamo vivendo,  per dire ciò che è appropriato dire, e fare ciò che è giusto fare, in quella circostanza.
Questo significa non cadere né nella passività impaurita (inghiottire) né  nella reattività impulsiva (che, sotto sotto, ha molto a che fare, anch'essa, con la paura).
Significa trasformare la nostra istintiva aggressività  in assertività, dove l'aggressività è un atteggiamento che dice "io sono contro di te", mente l'assertività è affermare con decisione (e all'occorrenza a gran voce) semplicemente "io sono" (e quindi ho il diritto di esistere e di essere rispettato con le mie caratteristiche, i miei bisogni, i miei valori, la mia dignità, i miei desideri, la mia ricerca di benessere).
Ed ora una storia indiana, metafora di tutto ciò, e a seguire la soluzione accolta alla fine anche dalla saggia Atena.
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Tanti anni fa - facciamo mille - in una terra lontana, diciamo in India, c'era un villaggio con un grosso problema: un enorme serpente velenoso minacciava e terrorizzava la popolazione ed aveva  già fatto  parecchie vittime.
Un giorno passò per il villaggio un sant'uomo, di quelli capaci di governare le forze della natura e di parlare con gli animali, e la gente chiese il suo aiuto.
Egli allora parlò al serpente, che da quel giorno divenne mansueto e inoffensivo.
Dopo qualche tempo, il sant'uomo tornò al villaggio ed apprese che il serpente se la passava molto male, perché la gente gliene faceva di tutti i colori: gli tirava sassi, lo trascinava per la coda, lo derideva e lo umiliava.
Allora il sant'uomo andò nuovamente dal serpente e gli disse: "Io ti avevo invitato a non fare del male agli altri, ma non ti avevo detto di non sibilare..."
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Se nella leggenda indiana l'assertività è simboleggiata dal serpente che sibila, pur non uccidendo, anche la mitologia greca offre un'immagine simbolica che sembra comporre il conflitto tra i due aspetti della femminilità rappresentati da Medusa e Atena.
Quando Medusa infatti viene decapitata da Perseo, la sua testa - ancora minacciosa - viene donata, dopo varie peripezie, dall'eroe ad Atena.
La dea non solo accetta il dono (e una testa decapitata non è certo un mazzo di rose...), ma pone la testa di Medusa sulla sua egida, che diviene così uno strumento di difesa ancora più potente.
La dea, in tal modo, conserva la sua divina dignità, ma al tempo stesso si riappropria dei suoi aspetti-Medusa, prima rifiutati, accettandoli e mettendoli al servizio delle sue parti elette.
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