La fine di una relazione, a qualunque causa sia dovuta, ci costringe a fare i conti con un vissuto di svuotamento e di perdita di senso.
Essa è assimilabile, per certi versi, ad un'esperienza di morte o di fallimento: ci sono dimensioni di perdita con cui ognuno deve fare i conti, c'è un dolore da attraversare, e ciò a prescindere dal fatto che si sia già avviato o meno un nuovo rapporto.
Ci troviamo inevitabilmente anche a fare bilanci, a mettere in discussione noi stessi, la nostra vita, il modo in cui abbiamo affrontato le circostanze.
Cominciamo a chiederci dove abbiamo sbagliato, di chi è la colpa di come sono andate le cose, quali fattori hanno segnato l'inizio della fine, se potevamo accorgercene per tempo e fare meglio o se meglio di così in realtà davvero non potevamo fare.
Nelle storie che durano, sperimentiamo un senso di sicurezza e di stabilità che ci pone al riparo dalla paura dell'impermanenza e della morte, e cioè in un certo senso dalla paura della vita stessa. Tutto cambia ed è incerto in questo mondo, tutto può finire da un momento all'altro, ma almeno sul nostro rapporto di coppia sappiamo di poter contare.
Così il mito dell'amore eterno apre la strada alla costruzione di altre certezze, a progetti di vita comune fondati sul desiderio di stati permanenti: il matrimonio, l'acquisto di una casa, la creazione di una famiglia. Tutte cose considerate solide, destinate a durare, la cui immagine interiorizzata dentro di noi ci offre appigli precisi che ci consentono di non vacillare sotto il peso di domande come: chi sono? che ne sarà di me? come proteggerò le mie aree vulnerabili dalle minacce dell'esistenza?
Nelle storie che durano barattiamo volentieri questo senso di sicurezza e di stabilità con la tolleranza delle piccole e grandi frustrazioni che l'amore riserva sui tempi lunghi. Impariamo a conoscere l'altro nel bene e nel male, ci abituiamo a convivere con i suoi lati buoni e meno buoni, gli offriamo di rimando il nostro pacchetto completo di vizi e virtù, e traiamo dal rapporto un nutrimento che ci sostiene, anche se non tutte le portate del menu sono di nostro gradimento (meglio questo, pensiamo, che stare digiuni).
La costruzione di questa specie di fortezza protettiva può costituire un freno potente rispetto al cambiamento anche quando diventiamo consapevoli che nel nostro rapporto sono più le cose che non vanno rispetto a quelle che ci danno gioia, e che del vecchio sentimento che ci legava all'altra persona non sono rimasti che vuoti gesti dettati dall'abitudine.
Decidere di troncare ci metterebbe di fronte all'assunzione di una pesante responsabilità: potremmo commettere un terribile errore e gli scenari delle possibili conseguenze della nostra scelta possono farci molta paura.
Se poi a prendere la decisione è uno solo dei membri della coppia, c'è da fare i conti con il senso di colpa connesso all'assunzione di un ruolo da "distruttore" (del legame di coppia, dei progetti di vita comune, dell'unità del gruppo familiare), che suona un po' come quello del "cattivo" della situazione. Chi prende la decisione infatti sente di attuare bene o male un atto di violenza, un taglio che in varia misura può produrre dolore al partner, ai figli se ci sono, e in fondo anche a se stesso. Fuori del rapporto, infatti, anche chi ha preso la decisione, dovrà fare i conti con una ridefinizione della propria identità e sperimentarsi diverso da prima, in tutti gli ambiti e le situazioni - anche sociali - che fino a quel momento aveva vissuto come membro della coppia.
Ogni relazione importante imprime dentro di noi una traccia indelebile di ciò che abbiamo vissuto, che fa parte della nostra evoluzione psicologica. Anche per questo non è facile gestire il pacchetto emotivo che accompagna la fine di un rapporto significativo.
Quando si sta dentro ad una relazione ancora viva solo nella forma, ma già conclusa nella sostanza, il dubbio se sia meglio troncare o resistere non è di facile soluzione e ci mette di fronte ai limiti del nostro coraggio. Ce la facciamo a reggere l'incertezza che ci aspetta fuori del solco già tracciato? Ce la facciamo a reggere l'idea che potremmo non trovare un altro equilibrio simile a quello che lasciamo? Ce la facciamo a reggere la prospettiva della solitudine? Ce la facciamo a reggere tutti gli strascichi del senso di colpa della distruzione del passato, fino a che la costruzione del nuovo non avrà preso una forma abbastanza soddisfacente da giustificare tutto il terremoto?
Quando si sta dentro ad una relazione ancora viva solo nella forma, ma già conclusa nella sostanza, il dubbio se sia meglio troncare o resistere non è di facile soluzione e ci mette di fronte ai limiti del nostro coraggio. Ce la facciamo a reggere l'incertezza che ci aspetta fuori del solco già tracciato? Ce la facciamo a reggere l'idea che potremmo non trovare un altro equilibrio simile a quello che lasciamo? Ce la facciamo a reggere la prospettiva della solitudine? Ce la facciamo a reggere tutti gli strascichi del senso di colpa della distruzione del passato, fino a che la costruzione del nuovo non avrà preso una forma abbastanza soddisfacente da giustificare tutto il terremoto?
Nessuno può decidere per noi. La vita di ciascuno rispecchia il suo modo di essere, il suo stile, i suoi valori, le sue personali attitudini, risorse, limiti. Ogni vita può essere una storia di valore, sia che i suoi eroi abbiano dato prova di capacità di resistenza nelle difficoltà, sia che abbiano dato prova di coraggio nel determinare cambiamenti grandi e difficili.
Un edificio cadente (come un rapporto di coppia che sembra non poter reggere più) tante volte riesce a sopravvivere per anni e anni, mantenendosi misteriosamente in piedi così com'è, senza crollare, e dando comunque un qualche rifugio dalle intemperie a chi lo abita; oppure può restare in vita giovandosi di interventi di consolidamento e restauro, che possono migliorare la situazione, valorizzando ciò che di buono ancora esisteva, anche se a un certo punto non si vedeva più; o ancora può essere abbattuto del tutto per fare spazio alla costruzione di un edificio completamente nuovo, nella consapevolezza che in questo caso bisognerà investire forze e risorse nell'attuazione dell'intera impresa, e tollerare anche le difficoltà della fase intermedia - quella tra la demolizione dell'edificio vecchio che non c'è più e la costruzione di quello nuovo che non c'è ancora - che comporterà momenti di vuoto, di mancanza di riferimenti e appigli, e di resa dei conti rispetto alle nostre reali forze e alla nostra capacità di tollerare la solitudine. Si tratterà infatti di gestire non solo una solitudine esteriore e oggettiva, ma anche un senso di solitudine interiore, connesso a quel senso di morte che, come si diceva all'inizio, può accompagnare dentro di noi la fine delle nostre relazioni importanti.
«Le risposte della nostra anima a questo complesso intreccio di sentimenti sono sempre individuali - ci ricorda Aldo Carotenuto, nel suo libro Il gioco delle passioni - e, proprio per questa ragione, non può esistere una formula universale per affrontare serenamente le separazioni.
In ogni caso, però, è fondamentale non pensare mai di "aver solo perso del tempo", e considerare ogni momento trascorso con l'altra persona come un passo importante della nostra evoluzione psicologica.»