domenica 5 aprile 2020

Il bambino che mise il piede nella frittata e altre vicende. Gli strani canali in cui può scorrere la fiducia


Vivo in un luogo dove ha le radici la linea paterna del mio albero genealogico e dove ho trascorso l'infanzia e la prima giovinezza.
Poi ho vissuto altrove per molti anni perdendo di vista molte persone, le loro storie, l'evolversi graduale delle loro tappe di crescita.
I bambini della memoria sono rimasti bambini per molto tempo e i giovani pure, finché, una volta tornata, non è cominciato il gioco della riscoperta, a mano a mano che i genitori, i professionisti, i fornitori di oggi con i capelli grigi o senza capelli, incrociando la mia strada, rivelavano lo stesso sguardo, la stessa risata di quel bambino, di quella bambina, di quei giovani lì. E riconoscersi è sempre bello, persino tra vecchi nemici, figurarsi tra amici.
Solo che ormai faccio questo gioco da quasi vent'anni, per cui davo per scontato di aver esaurito il censimento. Vivo in un piccolo centro e questi siamo.
In questi giorni l'emergenza Coronavirus mi blocca in casa e il mio solito fornitore di frutta e verdura non fa consegne a domicilio.
Mi arriva l'elenco di tutti i fornitori di alimenti a domicilio del mio Comune e ne chiamo al telefono uno che mi ispira.
Mi accorgo che la quarantena fa emergere tra noi, sottilmente, impercettibilmente, un'antica modalità di riconoscimento reciproco, in uso tra i vecchi della zona quand'ero bambina;  la domanda che dovevi aspettarti dalla nonna della tua compagna di classe, la prima volta che andavi a giocare/studiare a casa sua.
"A chi appartieni?", era. Che non è lo stesso di "Chi sei?", ma è piuttosto "Qual è la tua stirpe? Che tipo di gente siete? Che valori (o miti) di famiglia ti porti dietro, per cui possiamo fidarci di te?".
Si trattava di una specie di sgradevole radiografia, che noi bambini vivevamo di solito con fastidio e a volte con terrore. Tanto non portava mai niente di buono. Nel senso che, se pure la radiografia diceva che la nonna era bellissima e il nonno un galantuomo, comunque si poteva ritorcere (e spesso si ritorceva) contro di noi. "Sì, tu sei una bella bambina, ma - non te la prendere - tua nonna da giovane era un'altra cosa...", oppure "Ma come ti comporti? Tuo nonno si rivolterebbe nella tomba...".
Intanto ora al telefono, con questo nuovo fornitore,  mi accorgo stranamente che questa cosa mi diverte e, anziché lasciarla cadere, ci do dentro e lascio che lui ci dia dentro. C'è amichevolezza nella voce, una specie di sottile speranza di uscire a parenti, per lasciar andare la paura del contagio.
"In che zona siete?" chiedo e loro mi indicano una zona di campagna da cui manco da tanto tempo.
"Bella zona", dico. "Ci venivo da bambina".
Sento un brusio di sottofondo.
"Mio padre sta chiedendo se per caso venivate qua a fare le bottiglie di pomodoro."
Mamma mia... Un ricordo meraviglioso emerge improvvisamente da un anfratto della memoria. Il rituale collettivo delle bottiglie di pomodoro, in campagna, le donne, gli uomini, i bambini, tutti a lavorare insieme, grandi e piccoli, un po' all'aperto, un po' al chiuso, ognuno con le sue mansioni, la super-organizzazione che veniva dalla tradizione, una via di mezzo tra il gioco e la faticaccia.
"Sì", rispondo. "Qualche volta sono venuta".
Brusio.
"Mio padre vuole sapere come portate di cognome".
Glielo dico.
Il brusio si fa più chiaro. La voce di sottofondo comincia a elencare tutti i nomi della mia famiglia: mia sorella, mio cugino grande, mio cugino piccolo, mia zia, mia nonna. Io non sono nell'elenco, ma va bene così. Tanto ci siamo.
"Mio padre ha capito chi siete, dove abitate?".
Glielo dico. Tutto a posto. Appuntamento per la consegna, ci metteremo i guanti, la mascherina e tutto il resto.
"Ma voi avete capito chi è mio padre?" e mi dice un nome.
Rilancio con un soprannome che ci somiglia, ma no, non è lui. Va bene lo stesso, tanto ho capito chi era sua madre, chi erano i suoi fratelli.
A dopo.
Intanto che aspetto la consegna della spesa passo in rassegna i bambini di quella campagna con cui giocavo dopo che le nostre mansioni coi pomodori erano finite. Le fasi finali del lavoro non erano per noi bambini e allora ci mettevano a giocare in un campetto, per non intralciare il lavoro dei grandi ed evitare anche che ci facessimo male, tra pentoloni bollenti e simili cose.
Una volta, dopo che i giochi erano esauriti e ci era venuta fame, decidemmo di accendere un fuoco con i rami secchi e di cucinarci qualcosa. Qualcuno suggerì di fare una frittata e l'idea fu approvata all'unanimità.
Ci dividemmo i compiti: chi andò a prendere la legna, chi i fiammiferi, chi le uova, chi una padella, chi una zuppiera e una forchetta. Cose così.
Quando ci ritrovammo, per prima cosa rompemmo le uova nella zuppiera. Nella mia memoria di bambina si trattava di un numero esagerato di uova, tipo venti, trenta, ma oggi non saprei dire quante erano esattamente. Comunque tante da poter mangiare frittata tutti assieme. Poi alcuni si misero ad accendere il fuoco, altri a sbattere ben bene le uova nella zuppiera.
Il fuoco richiese più tempo. Così appoggiammo la zuppiera da una parte, a terra, e ci mettemmo tutti intorno alla legna mentre la fiamma prendeva corpo.
"Ora ci siamo", disse uno che se ne intendeva. E tutti esultammo.
Uno dei bambini di campagna - scalzo e in confidenza con la terra - con gli occhi fissi  sulla brace, per qualche motivo indietreggiò senza guardare bene dove metteva i piedi. E fu così che si ritrovò ben presto con un piede nella zuppiera.
"Oh, no...", disse, tirandolo fuori grondante d'uovo.
"Oh, no... che schifo!" gli facemmo eco tutti noi. "E mo' che si fa?"
Bisognava prendere una difficile decisione. O cuocere lo stesso la frittata, nonostante tutto, o lasciar perdere. Fine del gioco.
Ci pensammo un po', e alla fine decidemmo di cuocere lo stesso la frittata. Dopo cotta, avremmo deciso se mangiarla o no.
Un po' stortarella e un po' rotta qua e là, la frittata a un certo punto fu pronta.
L'odore era buono. Magari anche il sapore, chissà.
Qualcuno più coraggioso l'assaggiò per primo. "Buona", disse. E guardando il bambino che ci aveva messo dentro il piede, aggiunse: "Magari sa un po' di formaggio..."
Ci facemmo tutti una grande risata e ci spartimmo la frittata in parti uguali.
Alla fine la mangiammo tutti e nessuno morì.
Bussano al citofono. E' arrivata la spesa.
Mi lego i capelli, mi metto gli occhiali, i guanti, la mascherina, i vestiti e le scarpe da esterno, metto i soldi contati dentro a una bustina, la adagio su un telo di plastica sul pianerottolo così il ragazzo può prenderli senza avvicinarsi a me, e può poggiare là le sue buste della spesa. Ci facciamo ciao con la mano da lontano. Attraverso gli occhiali e le mascherine passa tra noi un sorriso.
Quanta distanza. Quante importanti rispettose precauzioni.
Penso alla storia della frittata, a quello strano anello di congiunzione tra le nostre famiglie: un pasto che abbiamo condiviso, che ci poteva fare male ma poi non ci ha fatto male.
Mi viene da sorridere.
In quali strani canali scorre la fiducia.






Foto all'inizio  di 青 晨 on Unsplash

Foto alla fine di Haley Hamilton on Unsplash

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