Visualizzazione post con etichetta amore. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta amore. Mostra tutti i post

sabato 13 febbraio 2021

Meditazione per una persona amata. Première su YouTube il 14 febbraio alle ore 00:00


Meditazione per una persona amata. Première su YouTube a mezzanotte al link:

https://youtu.be/YtWj3Bqe-9g

Vi aspetto per praticare insieme!

***

Quest'anno per San Valentino una meditazione dedicata ad una persona che amiamo, una persona che ogni volta che ci viene in mente ci porta gioia nel cuore, ci fa sorridere.

Non deve trattarsi necessariamente di un partner sentimentale. A volte può trattarsi anche di un nipotino, di un nonno, di un gatto, di un altro essere vivente facile da amare e che merita di essere ricordato nel giorno in cui si celebra l'amore.

Ricordiamo a noi stessi come ci sentiamo bene quando portiamo nel cuore un sentimento d'amore genuino, caldo, nutriente.

Portiamo l'attenzione su tutta la ricchezza e la gioia che ci viene da questo sentimento e sull'augurio spontaneo di ogni bene che scorre come un fluido da noi verso un'altra persona, per il solo fatto di amarla e di tenerla nel cuore.

La traccia audio resterà sul canale anche successivamente al medesimo link, sia per chi non potesse collegarsi alla première, sia per chi vorrà ripeterla anche altre volte.

Buona pratica e buon San Valentino a tutti!





***


martedì 14 febbraio 2017

Per San Valentino una cascata di ringraziamenti per le persone che amiamo

Oggi esprimiamo a chi amiamo la nostra gratitudine per le piccole o grandi cose che ha fatto per noi nella vita, una volta oppure ogni giorno.
Diciamoglielo espressamente quanto gli siamo grati, anche se può essere sottinteso.
Ecco come hanno deciso di farlo le persone che hanno accettato il mio invito a collaborare a questo post.






Grazie a tutti coloro che hanno riempito questo post con il loro amore e la loro gratitudine. Chiunque altro voglia aggiungersi può farlo nei commenti qui sotto o sulla pagina Facebook.
Buon San Valentino a tutti!














Vettori cuori designed by Freepik

domenica 15 febbraio 2015

Mettere la parola fine a una storia importante


Quando una storia d'amore è stata importante, il suo venir meno è un difficile passaggio, non solo per chi lo subisce e si considera abbandonato, ma anche per chi si assume la responsabilità della decisione di troncare.
La fine di una relazione, a qualunque causa sia dovuta, ci costringe a fare i conti con un vissuto di svuotamento e di perdita di senso.
Essa è assimilabile, per certi versi, ad un'esperienza di morte o di fallimento: ci sono dimensioni di perdita con cui ognuno deve fare i conti, c'è un dolore da attraversare, e ciò a prescindere dal fatto che si sia già avviato o meno un nuovo rapporto.
Ci troviamo inevitabilmente anche a fare bilanci, a mettere in discussione noi stessi, la nostra vita, il modo in cui abbiamo affrontato le circostanze.
Cominciamo a chiederci dove abbiamo sbagliato, di chi è la colpa di come sono andate le cose, quali fattori hanno segnato l'inizio della fine, se potevamo accorgercene per tempo e fare meglio o se meglio di così in realtà davvero non potevamo fare.
Nelle storie che durano, sperimentiamo un senso di sicurezza e di stabilità che ci pone al riparo dalla paura dell'impermanenza e della morte, e cioè in un certo senso dalla paura della vita stessa. Tutto cambia ed è incerto in questo mondo, tutto può finire da un momento all'altro, ma almeno sul nostro rapporto di coppia sappiamo di poter contare.
Così il mito dell'amore eterno apre la strada alla costruzione di altre certezze, a progetti di vita comune fondati sul desiderio di stati permanenti: il matrimonio, l'acquisto di una casa, la creazione di una famiglia. Tutte cose considerate solide, destinate a durare, la cui immagine interiorizzata dentro di noi ci offre appigli precisi che ci consentono di non vacillare sotto il peso di domande come: chi sono? che ne sarà di me? come proteggerò le mie aree vulnerabili dalle minacce dell'esistenza?
Nelle storie che durano barattiamo volentieri questo senso di sicurezza e di stabilità con la tolleranza delle piccole e grandi frustrazioni che l'amore riserva sui tempi lunghi. Impariamo a conoscere l'altro nel bene e nel male, ci abituiamo a convivere con i suoi lati buoni e meno buoni, gli offriamo di rimando il nostro pacchetto completo di vizi e virtù, e traiamo dal rapporto un nutrimento che ci sostiene, anche se non tutte le portate del menu sono di nostro gradimento (meglio questo, pensiamo, che stare digiuni).
La costruzione di questa specie di fortezza protettiva può costituire un freno potente rispetto al cambiamento anche quando diventiamo consapevoli  che nel nostro rapporto sono più le cose che non vanno rispetto a quelle che ci danno gioia, e che del vecchio sentimento che ci legava all'altra persona non sono rimasti che vuoti gesti dettati dall'abitudine.
Decidere di troncare ci metterebbe di fronte all'assunzione di una pesante responsabilità: potremmo commettere un terribile errore e gli scenari delle possibili conseguenze della nostra scelta possono farci molta paura.
Se poi a prendere la decisione è uno solo dei membri della coppia, c'è da fare i conti con il senso di colpa connesso all'assunzione di un ruolo da "distruttore" (del legame di coppia, dei progetti di vita comune, dell'unità del gruppo familiare), che suona un po' come quello del "cattivo" della situazione. Chi prende la decisione infatti sente di attuare bene o male un atto di violenza, un taglio che in varia misura può produrre dolore al partner, ai figli se ci sono, e in fondo anche a se stesso. Fuori del rapporto, infatti, anche chi ha preso la decisione, dovrà fare i conti con una ridefinizione della propria identità e sperimentarsi diverso da prima, in tutti gli ambiti e le situazioni - anche sociali - che fino a quel momento aveva vissuto come membro della coppia.
Ogni relazione importante imprime dentro di noi una traccia indelebile di ciò che abbiamo vissuto, che fa parte della nostra evoluzione psicologica. Anche per questo non è facile gestire il pacchetto emotivo che accompagna la fine di un rapporto significativo.
Quando si sta dentro ad una relazione ancora viva solo nella forma, ma già conclusa nella sostanza, il dubbio se sia meglio troncare o resistere non è di facile soluzione e ci mette di fronte ai limiti del nostro coraggio. Ce la facciamo a reggere l'incertezza che ci aspetta fuori del solco già tracciato? Ce la facciamo a reggere l'idea che potremmo non trovare un altro equilibrio simile a quello che lasciamo? Ce la facciamo a reggere la prospettiva della solitudine? Ce la facciamo a reggere tutti gli strascichi del senso di colpa della distruzione del passato, fino a che la costruzione del nuovo non avrà preso una forma abbastanza soddisfacente da giustificare tutto il terremoto?
Nessuno può decidere per noi. La vita di ciascuno rispecchia il suo modo di essere, il suo stile, i suoi valori, le sue personali attitudini, risorse, limiti. Ogni vita può essere una storia di valore, sia che i suoi eroi abbiano dato prova di capacità di resistenza nelle difficoltà, sia che abbiano dato prova di coraggio nel determinare cambiamenti grandi e difficili.
Un edificio cadente (come un rapporto di coppia che sembra non poter reggere più) tante volte riesce a sopravvivere per anni e anni, mantenendosi misteriosamente in piedi così com'è, senza crollare, e dando comunque un qualche rifugio dalle intemperie a chi lo abita; oppure può restare in vita giovandosi di interventi di consolidamento e restauro, che possono migliorare la situazione, valorizzando ciò che di buono ancora esisteva, anche se a un certo punto non si vedeva più;  o ancora può essere abbattuto del tutto per fare spazio alla costruzione di un edificio completamente nuovo, nella consapevolezza che in questo caso bisognerà investire forze e risorse nell'attuazione dell'intera impresa, e tollerare anche le difficoltà della fase intermedia - quella tra la demolizione dell'edificio  vecchio che non c'è più e la costruzione di quello nuovo che non c'è ancora -  che comporterà momenti di vuoto, di mancanza di riferimenti e appigli, e di resa dei conti rispetto alle nostre reali forze e alla nostra capacità di tollerare la solitudine. Si tratterà infatti  di gestire non solo una solitudine esteriore e oggettiva, ma anche un senso di solitudine interiore, connesso a quel senso di morte che, come si diceva all'inizio, può accompagnare dentro di noi la fine delle nostre relazioni importanti.
«Le risposte della nostra anima a questo complesso intreccio di sentimenti sono sempre individuali - ci ricorda Aldo Carotenuto, nel suo libro Il gioco delle passionie, proprio per questa ragione, non può esistere una formula universale per affrontare serenamente le separazioni.
In ogni caso, però, è fondamentale non pensare mai di "aver solo perso del tempo", e considerare ogni momento trascorso con l'altra persona come un passo importante della nostra evoluzione psicologica.» 



sabato 14 febbraio 2015

Lettera di John Steinbeck al figlio (quattordicenne) innamorato


New York, 10 novembre 1958
«Caro Thom, 
abbiamo ricevuto la tua lettera questa mattina. Ti risponderò dal mio punto di vista e di certo Elaine farà lo stesso.
Primo, se sei innamorato, è una buona cosa, praticamente la miglior cosa che ti possa capitare. Non permettere che nessuno la sottovaluti o sminuisca.
Secondo, ci sono molti tipi di amore. C’è uno egoista, meschino, rapace e cattivo che usa l’amore per darsi importanza. Questo è il tipo di amore più brutto e che rende deboli. L’altro invece è una fuoriuscita di tutte le cose buone che hai dentro di te - di gentilezza, considerazione e rispetto - non solo il rispetto delle buone maniere, ma il rispetto più grande, che è riconoscimento dell’altra persona nella sua unicità e valore. Il primo tipo di amore può farti star male, renderti piccolo e debole ma il secondo può far nascere in te una forza, un coraggio, una bontà e perfino una saggezza che non credevi di avere.
Hai detto che non si tratta di una cotta. Se provi sentimenti così profondi, certamente non è una cotta.
Ma non credo tu mi stessi chiedendo di dirti quello che provi. Lo sai meglio tu di chiunque altro. Quello che mi hai chiesto è di aiutarti a capire cosa fare. E questo, posso dirtelo.
Rallegratene e sii felice e grato.
L’oggetto dell’amore è il migliore e il più bello. Cerca di esserne all’altezza.
Se ami qualcuno, dirlo non può fare alcun male, ti devi soltanto ricordare che certe persone sono timide e quindi nel dirlo dovrai tenerne conto.
Le ragazze sanno come capire e sentire le cose che tu senti, ma di solito preferiscono anche sentirselo dire.
Può succedere che quanto senti non sia ricambiato, per una ragione o per l’altra, ma ciò non renderà i tuoi sentimenti meno veri e belli.
Per finire, so cosa provi perché lo provo anch’io, e sono felice per te.
Ci farà piacere conoscere Susan. Sarà la benvenuta. Ma a questo ci penserà Elaine, perché è il suo terreno e ne sarà felicissima. Anche lei conosce l’amore e forse saprà aiutarti più di me.
E non avere paura di perdere. Se deve succedere, succederà. La cosa più importante è non avere fretta. Le cose belle non scappano via.
Con amore.
Pa».


domenica 16 novembre 2014

Rimpianti o rimorsi? Un pensiero di Aldo Carotenuto

"I rimpianti sono dei veri e propri spettri, sempre in agguato e pronti a devastare la nostra vita costringendoci a immaginare in modo doloroso come sarebbero potute andare le cose se solo si fosse riuscito a trovare il coraggio di osare.
A differenza del rimpianto, che implica una specie di dubbio amletico dovuto al non aver agito affatto, il rimorso consiste in un tarlo, in un cruccio provocato dalla consapevolezza di aver agito male, di aver preso la decisione sbagliata, di aver combinato un guaio. Non vi è dubbio che i rimorsi siano in grado di assillarci fino allo sfinimento eppure, soprattutto in amore, sono preferibili ai rimpianti. Il rimorso implica l'aver agito, l'essere stati in grado, ad esempio, di chiudere un rapporto che non funzionava più, per viverne un altro liberamente, ma implica anche il farsi carico di tutte le responsabilità e conseguenze che una simile azione può comportare. I rimorsi affiorano quando ci apriamo alla vita e ai sentimenti senza esitare, quando accettiamo di correre dei rischi pur di esprimere senza mentire ciò che proviamo. Ma vivere significa anche guardarsi allo specchio e rendersi conto all'improvviso di avere sbagliato tutto, di avere abbandonato nostro marito o nostra moglie per una persona che avevamo immaginato diversa, di avere mandato in frantumi un rapporto che invece era quello giusto per noi, di avere fatto soffrire qualcuno che non meritava tanto dolore. E' questa la normalità degli eventi: rischi, vittorie, sconfitte.
Accettare che le cose stiano in questo modo vuol dire compiere il primo e più importante passo verso la consapevolezza nei confronti della vita, ma significa anche accettare l'eventualità che le esperienze si trasformino in fallimenti, in rovinose cadute che trascinano verso il basso non solo noi stessi, ma anche le persone che ci circondano. Eppure è più utile e salutare accumulare rimorsi piuttosto che vivere di rimpianti. Poiché rimpiangere significa, su un piano metaforico, avere rinunciato a vivere, essersi sottratti alle esperienze e chiedersi, giorno dopo giorno, in modo quasi ossessivo, "come sarebbe stato se". "
(Aldo Carotenuto, Il gioco delle passioni)  
***
Link collegati:
Seguimi anche su Google+  (...e in caso di difficoltà, clicca qui per istruzioni)

sabato 27 settembre 2014

Amore, fedeltà, bugie e tradimenti: Ipsa dixit. 2) Una citazione di Kate Figes

"Quando una relazione extraconiugale manda in frantumi la fiducia di un rapporto consolidato, le risposte vanno cercate nel mettere in discussione e cambiare il nostro modo di vedere e di trattare il partner, anziché incolparlo per tutto ciò che non è giusto.
Entrambi devono trovare il modo di parlare dei rispettivi malcontenti verso la vita e della natura della loro mutua dipendenza, senza spingere l'altro a sentirsi in colpa perché non li ha resi del tutto felici. 
Ciascuno deve sentirsi in grado di parlare onestamente di come ha vissuto il rapporto, di ciò che non gli è piaciuto e di ciò che gli è piaciuto.
Ciascuno deve sentirsi ascoltato dall'altro, il che significa mettere da parte cliché quali "Come hai potuto farmi questo?" o "Se non fosse stato per il bambino...".
L'approccio tradizionale, in cui la colpa è tutta del "fedifrago" e l'empatia va solo al coniuge tradito, profondamente ferito, pregiudica i rapporti molto più dell'atto di tradimento sessuale stesso. 
Mette i partner uno contro l'altro invece di riunirli. 
Permette alla "vittima" di scagliare tutto il suo risentimento e la sua rabbia per la vita in generale  contro il dramma della relazione e contro il modo in cui ha sofferto le conseguenze.
La "vittima" ricostruisce il racconto del tradimento per sottolineare, sia a se stessa sia al mondo, quanto si senta offesa e ferita, riducendo al minimo il suo contributo o il senso di colpa e quindi acquisendo forza nella politica di potere della coppia.
Cionondimeno, l'ipotesi che il "cattivo" traditore falsi maggiormente la storia rispetto al partner, per attenuare la portata della sua trasgressione, non è supportata da ricerche, perché sia le vittime sia i "colpevoli" sembrano distorcere il racconto di pari passo a sostegno della loro posizione.
Le "vittime" tendono a esagerare la gravità della trasgressione, mentre i "colpevoli" tendono a minimizzarla e a suddividere le colpe, presentando come comprensibili le loro motivazioni.
Il divario tra i due quindi si allarga e nessuno riesce a riflettere costruttivamente su quello che magari vuole realmente dal rapporto, perché le posizioni sono diventate decisamente contrapposte.
Più come "vittime" rimuginiamo sui dettagli della relazione, più è probabile che li useremo come arma nelle successive battaglie legali, lottando per ogni centesimo, ogni ora di contatto con i figli nelle cause di divorzio.
Rischiamo che tutta la nostra energia venga rivolta a cercare una punizione per il tradimento e a garantire che la nostra posizione venga vista come quella lesa, anziché usarla per scoprire tra le macerie un modo di vivere un futuro migliore, assieme o separatamente."
(Kate Figes, Amore, fedeltà, bugie e tradimento, Ed.Il punto d'incontro, 2014)

venerdì 26 settembre 2014

Amore, fedeltà, bugie e tradimenti: Ipse dixit. 1) citazioni di Umberto Galimberti


"E allora, forse un po' sbrigativamente, le devo dire che il maschio, almeno nel suo immaginario, non è monogamico. Le sue fantasie poligamiche sono forse il retaggio culturale della pratica animale dove, salvo le eccezioni di alcune specie, la monogamia non esiste."
***
"La fedeltà, se la vogliamo scarnificare un po', è la virtù di chi si sente più debole nella coppia e ha l'impressione che, perso quell'uomo o quella donna con cui vive, non ha altra chance che il deserto della solitudine. E allora si abbarbica all'indifferenza dell'altro/a, quando non alla sua ostilità, profondendosi in quelle forme esasperate d'amore che sono il rovescio del suo bisogno assoluto dell'altro."
***
"Se il bisogno di rassicurare la propria intrinseca insicurezza genera la fedeltà, il bisogno di non annullarsi nell'altro genera il tradimento."
***
"Tutto questo per dire che l'amore non è possesso, perché il possesso non tende al bene dell'altro, né alla lealtà verso l'altro, ma solo al mantenimento della relazione, che, lungi dal garantire la felicità, che è sempre nella ricerca e nella conoscenza di sé, la sacrifica in cambio di sicurezza."
***
"Tradendolo, l'altro lo consegna a se stesso e niente impedisce di dire a tutti coloro che si sentono traditi che forse un giorno hanno scelto chi li avrebbe traditi per poter incontrare se stessi, come un giorno Gesù scelse Giuda per incontrare il suo destino."
***
(Umberto Galimberti, Tradire è amare, ottobre 2001, D la Repubblica delle Donne)
***

sabato 2 agosto 2014

Mitologia e psicologia. 6) Perdere se stessi nelle relazioni. Persefone: figlia diletta della sua mamma e sposa del dio degl'Inferi


Persefone all'inizio del suo mito era una fanciulletta spensierata, figlia diletta di sua madre Demetra e di Zeus.
Poi tutt'a un tratto, senza nemmeno avere il tempo di crescere, Persefone diventò regina del regno delle Ombre. 
Questo perché Ade, dio degl'Inferi, aveva deciso di sposarla e, senza tante cerimonie, l'aveva rapita e portata con sé nell'Oltretomba.
E lì sarebbe rimasta Persefone, per quanto disperata, se non fosse intervenuto qualcuno a liberarla.
Arrivò allora Ermes, mandato da Zeus.
Demetra infatti, per ottenere il rilascio della figlia, aveva sospeso per protesta le sue funzioni di dea delle messi ed aveva  fatto  inaridire la terra, costringendo Zeus a intervenire.
Così Persefone (grazie a Demetra, Zeus ed Ermes) venne reintegrata nel suo ruolo di fanciulletta della mamma, con grande soddisfazione di quest'ultima.
Soddisfazione che però durò poco.
Persefone infatti aveva mangiato dei semi di melograno che le aveva dato Ade, per cui fu costretta a tornare da lui ogni anno per una parte dell'anno.
Da allora in poi, quando Persefone sta con Demetra (primavera ed estate) la terra è prospera e feconda; quando invece sta con Ade (autunno e inverno) tutto rinsecchisce.
***

E' difficile dire chi sia Persefone, terza delle dee vulnerabili dopo Era e Demetra, perché è molto meno definita rispetto alle altre due.
Di Era  si può dire facilmente che è la personificazione dell'archetipo della moglie.
E di Demetra che è la personificazione dell'archetipo della madre.
In esse possiamo riconoscere infatti alcuni aspetti molto caratteristici della femminilità, che possono emergere in una donna sotto la spinta di forze che premono verso la coniugalità o la maternità.
Per capire invece chi sia Persefone, per coglierne la vera essenza, non si può fare riferimento alle forze che la muovono, perché spesso queste forze... non sono le sue.
Persefone infatti, tra le dee vulnerabili, è la più passiva.
E' una che  più che agire, viene agìta; più che muoversi, viene mossa; più che scegliere, viene scelta
Per cui è più facile rispondere alla domanda "dove sta Persefone?", anziché alla domanda "chi è Persefone?".
Tanto più che questa dea cambia enormemente a seconda di dove sta, come la sua storia sembra mostrare chiaramente.
La risposta alla domanda "dove sta Persefone?" è facile: perché o sta dalla madre o sta dal marito, secondo le stagioni.
E non ci si può sbagliare, perché non esiste una stagione in cui Persefone possa stare sola con se stessa e decidere di andare dove le pare.
Quando sta dalla madre, aiuta la madre; quando sta dal marito, aiuta il marito. E in questo modo non attua mai un mito tutto suo, ma è al servizio dei miti altrui. 
Nel mondo reale, somigliano a Persefone:
  • le donne che nelle relazioni affettive si trovano amate di un amore che non lascia spazio alla loro individualità e alla loro autonoma volontà (anche a Persefone nessuno chiedeva dove volesse andare: la madre dava per scontato che volesse stare con lei, e la tirava a sé; Ade aveva deciso che la voleva in sposa e la rapì);
  • le donne che nelle relazioni affettive si consegnano all'altro, e sono disposte a fare tutto quello che l'altro decide (dobbiamo fare la primavera, perché mamma è la dea delle messi? E va bene: facciamo la primavera. Dobbiamo governare le anime dell'oltretomba, perché Ade è il dio degl'Inferi? E va bene: facciamo anche quello);
  • le donne che concedono agli altri il potere di fare il bello e il cattivo tempo nella loro vita (come Persefone che non aveva nessun potere sull'alternarsi delle stagioni che accompagnavano il suo andirivieni tra i due mondi);
  • le donne che tendono a vivere le loro relazioni in modo  fusionale, sentendosi un tutt'uno con l'altro (ti amo e quindi io e te siamo la stessa cosa) anziché dando e ottenendo il rispetto dell'alterità di ciascuno (amo te che sei altro da me, come tu ami me che sono altro da te);
  • le donne che cercano di affermare se stesse sostenendo l'esatto contrario di ciò che afferma la madre, il padre, il partner, e che quindi, anche quando la spuntano, non sono comunque fedeli a se stesse, perché non sviluppano prospettive veramente proprie, ma semplicemente prospettive opposte a quelle altrui, e come tali dipendenti dal volere altrui, anche se in negativo (Persefone, per esempio, pare che abbia mangiato volontariamente i semi di melograno che Ade le aveva dato, scegliendosi così proprio il destino che sua madre aveva cercato in tutti i modi di risparmiarle).     
Nella sua relazione con Demetra, Persefone rappresenta la difficoltà che una donna può avere a recidere il cordone ombelicale con sua madre, a separarsi emotivamente da lei per vivere se stessa come una persona differenziata, con una propria autonomia di pensiero e di sentimento, capace di scelte proprie basate sulle proprie priorità, i propri bisogni, i propri valori.
Una madre Demetra, a sua volta, potrebbe non essere incline a favorire il processo di crescita e di progressiva autonomia dei figli. Se ha investito tutta se stessa nelle funzioni materne, potrebbe sentirsi a sua volta persa se i figli crescendo si separano da lei. 
Ma volerli tenere legati a sé, per  non soffrirne il distacco, non favorisce la crescita dei figli; e non è espressione d'amore ma sopraffazione ("l'altro mi serve per soddisfare i miei bisogni", mentre il vero amore è rispettoso dei bisogni dell'altro).
Persefone, che passa da una madre dominatrice a un marito dominatore, non ha la possibilità di completare un processo di maturazione personale, che possa consentirle  di sperimentarsi come essere a un tempo "separato" eppure "in relazione", e quindi di viversi come persona adulta, capace di autodeterminarsi e di decidere per sé, e di  assumersi le proprie responsabilità, insieme al rischio di sbagliare con la propria testa.
Crescerà mai una Persefone?
Diventerà mai padrona di se stessa?
Come al solito, dipende dai casi.
Alcune donne, dopo aver scelto un partner- Ade, che facilita la loro separazione dalla madre, riescono a non restare soggiogate da lui, e a portare comunque avanti il loro processo di crescita individuale.
Altre conoscono momenti bui (il mondo delle Ombre) e arrivate a un certo punto possono decidere di fare i conti con gli aspetti irrisolti della loro vita. 
Altre invece restano talmente incastrate in modelli relazionali fusionali, da non riuscire a concepire un'alternativa, con il rischio di continuare a perpetrare il modello stesso anche nelle nuove relazioni e presso le nuove generazioni. 



***
***

sabato 19 luglio 2014

Quando il silenzio del partner diventa "tortura"

Il silenzio tra due persone può avere valenze diverse, a volte  positive (il silenzio di due innamorati appagati), a volte negative (il silenzio di una coppia che non ha più niente da dirsi).
Ci sono alcuni, diceva Elias Canetti, che nel silenzio "raggiungono la loro massima cattiveria". 
Un silenzio eloquente e severo, infatti, a volte può essere più mortificante di un giudizio verbalizzato.
C'è chi infligge il silenzio come punizione.
Chi ogni tanto 'mette il muso', uno gli chiede "Che c'è?" e ottiene come risposta "Niente" o  altro silenzio. 
Per quanto banale possa sembrare la faccenda del 'mettere il muso', in realtà stare in una relazione affettiva con una persona che usa sistematicamente il silenzio per punirci dei nostri errori, veri o presunti che siano, può rivelarsi un'esperienza molto pesante. 
La mancanza di dialogo può impedirci di comprendere per che cosa veniamo effettivamente  "puniti" (e cioè dove abbiamo sbagliato, se pure  abbiamo sbagliato)  e  comunque ci nega la possibilità di spiegare le nostre ragioni,  di difenderci dalle accuse, di rimediare in qualche modo al danno. Il silenzio infatti interrompe il ponte tra noi e l'altro e ci consegna kafkianamente a una condanna senza motivazione e senza appello, togliendoci l'unico appiglio possibile: il contatto.
C'è anche da dire che, poiché nelle interazioni umane è "impossibile non comunicare", il silenzio ostinato di una persona nella sua interazione con un'altra non è mai un fatto neutro e può mettere il destinatario del silenzio in uno stato di pesante incertezza emotiva, come se gli arrivasse il messaggio "tu non esisti".
E cosa avviene quando questo messaggio ci arriva dal nostro partner?
A riguardo, nel libro Amare tradire, Aldo Carotenuto dice: 
"Il silenzio nella  coppia uccide, annulla l'altro, lo nega finanche nella sua presenza e lo spinge lentamente verso la dimensione del non essere, del non esistere più. [...] Subendo questo silenzio incominciamo a dubitare delle nostre percezioni : esistiamo ancora? Lanciamo dei messaggi, avanziamo delle richieste, e sia gli uni che le altre ci ritornano indietro immodificati nel silenzio. 
Generalmente le vittime di questa interazione patologica sono le donne perché in esse la spinta verso il rapporto è comunque dominante rispetto alla prevaricazione. [...] Tuttavia sarebbe improprio generalizzare questo fenomeno: anche molti uomini sono vittime del silenzio femminile, sadico e colpevolizzante. [...] La parola rappresenta uno strumento fondamentale della comunicazione umana e qualunque alterazione patologica di questa potenzialità  inchioda gli interlocutori a un penoso vuoto di contatto."
Si potrebbe a questo punto osservare che anche le persone esageratamente loquaci, quelle che nell'interazione con l'altro tendono a prendere sempre loro la parola, a volte danno l'impressione di parlare  da sole e di ascoltare solo se stesse. Questa modalità, questo straparlare, in effetti "lascia anch'esso due persone in un vuoto di contatto e di significato. Ma il silenzio",  dice sempre  Carotenuto, "si rivela di gran lunga più schiacciante e impetuoso, il silenzio impone una condanna senza appello capace di suscitare in chi la subisce sensi di colpa tanto più tormentosi quanto più radicalmente inesplicabili. Il silenzio può essere letteralmente [...] 'crudele',  può rivelare una forte componente sadica anche se chi lo adotta ha piuttosto l'aria di atteggiarsi a vittima, ribaltando così i ruoli grazie a una scelta vistosamente rinunciataria e perciò 'passiva'. "
della nostra evoluzione psicologica.» 




giovedì 10 luglio 2014

Autostima e relazioni sentimentali

"Tutti conosciamo la famosa battuta di Groucho Marx. 
«Non mi iscriverei mai a un club che ha me come membro».
 Questa è esattamente l'idea secondo cui molte persone che non si autostimano vivono le loro storie d'amore. Se mi ami è ovvio che non sei abbastanza in gamba per me. 
L'unico oggetto accettabile della mia devozione è qualcuno che alla fine mi lascerà." 
(Nathaniel Branden)
***
L’autostima è l’atteggiamento che ognuno di noi ha nei confronti di se stesso, e comprende:
- aspetti cognitivi (ciò che penso di me stesso),
- aspetti emotivi (ciò che provo nei miei confronti),  
- aspetti comportamentali (come mi comporto verso me stesso: quanto mi rispetto, quanto soddisfo i miei bisogni, eccetera ). 
Una persona con un'autostima pienamente realizzata ha la sensazione di essere nel complesso adeguata alla vita e alle sue richieste. Ciò non significa che debba avere un atteggiamento di superiorità (che anzi denota piuttosto una  bassa autostima, proprio come un atteggiamento di aperta svalutazione di sé), ma piuttosto che ammette con serenità i suoi pregi e i suoi limiti, si accetta e si ama così com'è, e cerca comunque di migliorare.
Una persona con una buona autostima si può riconoscere perché per esempio:
- si fida della propria capacità di superare le sfide fondamentali della vita;
- si fida del proprio pensiero e della propria capacità di giudizio;
- riconosce a se stessa il  diritto di affermare le proprie necessità, i propri desideri e i propri valori;
- ha la sensazione di meritare il successo come frutto dei propri  sforzi;
- ha la sensazione di meritare la felicità, compresa la felicità sentimentale. 
A proposito di quest'ultima si è soliti dire che, per avere una vita sentimentale appagante, la prima storia d'amore che dobbiamo far funzionare è quella con noi stessi.
Pare infatti che esista una correlazione positiva tra il  livello di autostima di una persona e la sua maggiore o minore propensione a stringere e far durare relazioni sentimentali soddisfacenti: un'alta autostima predisporrebbe a relazioni sentimentali più nutrienti, una bassa autostima a relazioni sentimentali più «tossiche».
E' come se le persone che a livello profondo sono convinte di valere poco e  di non essere degne d'amore andassero a cercarsi situazioni e rapporti che possano confermare la loro convinzione.  Quasi che, messe di fronte alla scelta tra l'avere  ragione ed essere felici,  preferissero avere ragione. 
A volte a livello cosciente una persona può ripudiare l'idea di non essere degna d'amore, ma a livelli profondi può mancarle  una reale sicurezza a riguardo, e covare la paura segreta di essere destinata solo a soffrire. Questa paura, quando meno ci si aspetta, può funzionare come una mina sotterranea, che a un certo punto esplode e fa saltare le occasioni di felicità sentimentale. 
A volte la persona può provare una vera e propria «ansia da felicità», perché una relazione sentimentale sta andando troppo bene e questo attiva dei meccanismi che la fanno stare male fino a indurla ad autosabotarsi, pur di ripristinare le condizioni infelici con cui ha più familiarità.
E' ciò che Nathaniel Branden, nel suo libro I sei pilastri dell'autostima, descrive come schema di base dell'autodistruzione.
"Se «so» che il mio destino è l'infelicità, - dice Branden -  non devo permettere alla realtà di confondermi offrendomi gioia. Non sono io che devo adeguarmi alla realtà, ma il contrario. 
Non sempre è necessario distruggere del tutto la relazione: essa può tranquillamente continuare, purché io sia infelice.
Posso impegnarmi in un progetto chiamato lottare per essere felice o lavorare sul nostro rapporto.
Posso leggere libri sull'argomento, partecipare a seminari, andare a conferenze o affidarmi alla psicoterapia con lo scopo annunciato di essere felice in futuro.
Ma non adesso, non oggi.
La possibilità di essere felice nel presente è troppo vicina e per questo fa paura.
[...] La felicità può attivare delle voci interiori che dicono io non merito questo, non può durare, finirò sicuramente con il sedere per terra, essendo più felice di quanto non siano mai stati loro io sto uccidendo mio padre e mia madre, la vita non è così, gli altri saranno invidiosi di me e mi odieranno, la felicità è  solo un’illusione, nessun altro è felice quindi perché dovrei esserlo io, e così via. Per quanto paradossale possa sembrare, quello che a molti di noi manca è il coraggio di tollerare la felicità senza autosabotarsi, almeno finché non smettiamo di averne paura e ci rendiamo conto che non ci distruggerà (quindi non è necessario che sparisca).
[...] E’ necessario confrontarsi con queste voci distruttive, e non sfuggirle. Bisogna costringerle a un dialogo interiore, sfidarle a mostrarci le loro ragioni, rispondere e controbattere con pazienza alle loro sciocchezze – insomma trattarle come si farebbe con una persona in carne ed ossa. 
E distinguerle dalla voce del nostro io adulto."
***