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giovedì 19 febbraio 2015

I sospiri delle donne. Un pensiero di Sarah Ban Breathnach


"Le donne sospirano per non urlare. Ci sono diverse occasioni, nell'arco della giornata, in cui urlare è la reazione più appropriata. Tuttavia, da queste parti urlare è considerato sconveniente.
Così sospiriamo.
Prima inspiriamo, velocemente, bruscamente, inalando la realtà, riconoscendo l'attuale situazione - la seccatura o la delusione del momento, il confronto o la sfida, la lunga attesa o la mancanza di cooperazione.
Tratteniamo un istante il respiro.
Poi espiriamo, lentamente, profondamente, emettendo e lasciando andare la nostra reazione iniziale - lo sgomento, l'impazienza, il fastidio, la delusione, il rimorso. Buttandola fuori. Lasciandola andare.
Il sospiro è un tacito voto di accettazione - "riprendersi" e andare avanti.
Le donne che vivono con una persona significativa e/o con figli sospirano più delle loro sorelle solitarie perché devono affrontare un maggior numero di preferenze, bisogni, desideri, volontà ed esigenze, se vogliono uno stato di distensione nella vita di tutti i giorni. Si piegano di più per non spezzarsi.
Così, se oggi provi il bisogno di sospirare, mi raccomando, respira lentamente e profondamente. Respira espressivamente. Pensa al sospiro come aria calda che ti fa essere all'altezza della situazione.
L'aria calda, se imprigionata, prima o poi esplode, e il vapore può bruciare. Ma il vapore che viene fatto deliberatamente fuoriuscire da una valvola di sicurezza può essere convertito in energia creativa.
Quindi sospira senza esitazione. Sospira senza sensi di colpa. Sospira senza imbarazzo. Sospira con piacere.
Sospirate ancora, signore, sospirate ancora."
(Sarah Ban Breathnach, L'incanto della vita semplice)  


domenica 21 settembre 2014

"Le quattro fasi del perdono" di Clarissa Pinkola Estés


1. Prendere le distanze - lasciar cadere
2. Astenersi - evitare il castigo
3. Dimenticare - estirpare dalla memoria, rifiutarsi di indugiare
4. Perdonare - rimettere il debito
***

PRENDERE LE DISTANZE

Per cominciare a perdonare, è bene allontanarsi, ovvero non pensare per un po' alla persona o all'evento. Non si tratta di lasciare qualcosa di incompiuto, ma di prendersi una sorta di vacanza. Evitiamo così di sentirci esauste, ci lasciamo uno spazio per rafforzarci, per godere di altre felicità.

È un buon esercizio per arrivare al distacco finale che arriva con il perdono. Allontanatevi ogni volta che lo ritenete necessario. Non si tratta di trascurare ma di diventare agili e forti nel distaccarsi dalla questione. Prendere le distanze significa fare cose interessanti e belle che vi rafforzano, e lasciare che la questione cada per qualche tempo. È giusto, e di grande aiuto, fare così. Le antiche ferite, le offese tormentano molto meno se la donna assicurerà alla psiche ferita che intanto le darà dei balsami benefici, e poi si occuperà dell'intera questione.


ASTENERSI

La seconda fase consiste nell'astenersi, in particolare nel senso di evitare il castigo e anche di pensarci. È estremamente utile esercitarsi in questo ritegno perché sospinge la questione in un posto definito invece di lasciarla fluttuare ovunque. È una preparazione alla fase successiva. Non significa perdere la vigilanza per proteggersi, ma piuttosto fare un piccolo atto di clemenza e stare a vedere se aiuta.

Astenersi significa avere pazienza, resistere, incanalare l'emozione. Si tratta di medicine portentose. È una purificazione. Non occorre fare tutto insieme: potrete scegliere la pazienza, ed esercitarvi ad averne. Potrete trattenervi dal mugugnare, dall'agire in modo risentito e ostile. Trattenersi da un inutile castigo rafforza i l'integrità dell'azione e l'anima. Astenersi significa praticare la generosità, consentendo così alla grande natura compassionevole di partecipare a questioni che hanno provocato emozioni.


DIMENTICARE

Dimenticare significa cancellare dalla memoria, rifiutarsi di indugiare, in altri termini: lasciar andare, allentare la presa; in particolare nella memoria. Dimenticare non significa annacquarsi il cervello. L'oblio consapevole significa non insistere nel tenere la questione in primo piano ma relegarla sullo sfondo, o allontanarla dal palcoscenico.

Ci esercitiamo nell'oblio conscio rifiutando di raccogliere il materiale infiammabile. Dimenticare è un gesto attivo, non passivo. Significa non sollevare taluni materiali, non continuare a rigirarli, non fomentarsi con pensieri, immagini, emozioni ripetitivi. L'oblio conscio significa volutamente abbandonare la pratica di ossessionarsi, e intenzionalmente allontanarsi e perdere di vista, non guardarsi indietro, vivendo così in un paesaggio nuovo, creando una vita nuova e nuove esperienze cui pensare. Questo oblio non annulla la memoria ma mette a riposo l'emozione che avvolge la memoria.


PERDONARE

Sono molti i modi e molte le misure del perdono concesso a una persona, a una comunità, a una nazione per un'offesa. È importante ricordare che il perdono «definitivo» non significa resa. È la decisione conscia di smetterla di nutrire il risentimento, il che implica rimettere un debito e rinunciare alla rappresaglia. Dovete essere voi a decidere quando perdonare e con quale rituale segnare l'evento. Sarete voi a decidere quale debito non dovrà più essere pagato.

Alcuni scelgono il perdono totale: l'altro non è più tenuto alla restituzione, né ora né mai. Altri arrivano a dire che quel che è stato è stato, e il rimborso parziale è sufficiente. Un altro tipo di perdono ancora è lasciar perdere anche se l'altro non ha in alcun modo restituito nulla.

Per alcuni, perdono significa guardare l'altro con indulgenza, il che è facile se le offese furono lievi. Una delle più grandi forme di perdono è offrire un aiuto compassionevole alla persona che ci ha offeso. Non significa infilarsi nella fossa dei serpenti, ma reagire da una posizione di clemenza, sicurezza e preparazione.

Il perdono è il culmine delle precedenti fasi. Significa rinunciare non alla protezione ma alla freddezza. Una grande forma di perdono è smettere di escludere l'altro. Per la psiche-anima, è meglio limitare il tempo dato alle persone con le quali si sta con difficoltà, che agire come un manichino insensibile.

Il perdono è un atto creativo. Potete perdonare per ora, per un po', fino alla prossima volta, perdonare ma non offrire ulteriori possibilità — - il gioco cambia se si produce un altro incidente. Potete offrire una sola possibilità, varie possibilità, offrirle soltanto se. Potete dimenticare un'offesa in parte, per metà, o del tutto. Sta a voi decidere.

Come sapere se si è perdonato? Proverete più dispiacere che rabbia, la persona vi farà più pena che rabbia. Per cominciare, comprenderete la sofferenza che ha prodotto l'offesa. Preferirete restarne fuori. Non vi aspetterete nulla. Non vorrete nulla. Nessun laccio stretto ai fianchi vi ritrascina lì. Siete libere di andare. Forse non ci sarà il finale e poi vissero felici e contenti, ma quasi per certo c'è un nuovo C'era una volta per ricominciare.
(Clarissa Pinkola Estés, Donne che corrono coi lupi)
***



martedì 26 marzo 2013

Posizionare a vista (sotto gli occhi, sotto mano o addirittura sotto... i piedi) i segni tangibili del proprio successo


"Mi misi a cercare indizi, e trovai la prova  che le montagne erano state effettivamente scalate... 
Dopodiché cominciai a congratularmi a voce alta con me stessa per le cose che mi erano riuscite bene. 
Ora catturo i momenti di successo rendendoli concreti. Avere la prova concreta della riuscita mi ha aiutata molto..." (Sarah Ban Breathnach)
***

Una volta un avvocato mi raccontò che, ogni volta che la sua fede in se stesso vacillava, tirava fuori la propria tesi di laurea, la sfogliava ben bene e in questo modo si sentiva subito ritemprato.
Quando gli chiesi quale fosse l'argomento della sua tesi di laurea, venne fuori che era uno degli istituti più terribili e controversi del diritto italiano, una cosa che tutti tendono a dimenticare appena possono, quasi a voler  allontanare al più presto dalla coscienza il sospetto di essere un po' deficienti.
Dovette uscirmi dagli occhi uno sguardo pieno di ammirazione, che l'avvocato dovette a sua volta accogliere come una specie  di applauso, almeno a giudicare dalla sua evidente espressione gongolante.
Tutto questo mi fece riflettere:  quell'uomo continuava a gongolare per un successo risalente a più di dieci-venti anni prima! Quante cause aveva fatto da allora? Quante ne aveva vinte? Quante ne aveva perse? Quante volte gli era venuto il sospetto di essere un po' deficiente, e quante volte  la sua tesi di laurea gli aveva "risposto" che non lo era?

Oggi, ripensandoci, vorrei fare davvero un applauso a quell'avvocato, ma non tanto per l'argomento difficilissimo della sua tesi di laurea, e nemmeno per tutti gli ulteriori successi che gli auguro di aver frattanto accumulato, quanto per la sua ottima, e direi esemplare, strategia di auto-accudimento!
Uso la parola strategia a bella posta, perché a volte si ha l'impressione che ci sia una vera e propria  guerra in corso, non solo tra noi e il mondo - in un'aula di tribunale o su altri campi di battaglia -, ma dentro noi stessi. Non un pensiero, ma un esercito di pensieri, a volte parte all'attacco della nostra autostima, e ci butta appresso cannonate di prove della nostra inadeguatezza: le immagini di tutti i nostri errori, le nostre mancanze, i nostri limiti. Quelle non sono fantasie, sono prove schiaccianti contro di noi: tutta roba vera! Che si fa? Vogliamo rischiare una condanna inappellabile o ci vogliamo munire di un avvocato difensore?
Che tipo di strategia adopera, l'avvocato di cui parlavamo, nel tribunale della sua autostima?
Non la negazione. Inutile negare i propri limiti ed i propri insuccessi, se sappiamo benissimo che sono reali. Anzi, ammetterli e riconoscerli, per quanto doloroso possa essere, è il primo passo per superarli (ce l'hanno sempre detto che "sbagliando s'impara"!).
Ma lui faceva un'altra cosa: portava l'attenzione sul suo valore, sulle prove concrete del suo valore, contrastando con un atto attentivo le cannonate contro la propria autostima, costituite dalle prove  schiaccianti dei suoi limiti.
Il succo della sua arringa, insomma (sempre al Tribunale dell'Autostima, sia chiaro...), sembrerebbe questo: "Signor giudice, è vero che oggi ho fatto una cosa da deficiente, ma riuscirò a non farla più, perché non sono un vero deficiente: guardi che tesi di laurea! Forza, mi dia l'assoluzione! E se proprio non mi vuole assolvere con formula piena, mi conceda almeno la condizionale!".
Tutto questo discorso solo per sottolineare l'importanza di avere sotto i nostri occhi (o almeno sufficientemente sotto mano) le prove concrete del nostro valore, per quanto vecchie e impolverate ci sembrino. Questo non tanto per esibirle agli altri, quanto per offrirle affettuosamente a noi stessi al momento buono.
Se non siamo tipi da appendere alle pareti i nostri diplomi, i nostri certificati di laurea, la nostra pagella di prima elementare con tutti 10, oppure tenere a vista targhe, trofei e ritagli di giornale che parlano di noi (foss'anche il giornalino dei boy scout che celebrava negli anni Ottanta il nostro coraggio o la nostra capacità di fare nodi), nulla ci vieta di tenere tutto ciò in un'apposita scatola dei successi: una specie di porta-gioielli, un piccolo forziere delle nostre vittorie e dei nostri meriti.
Può andare bene anche un cassetto, o anche uno scaffale qualunque: basta che tutte queste cose non finiscano in cantina o in soffitta, perché è proprio nel dimenticatoio che non devono finire!
Teniamocele care sotto gli occhi, sotto mano o anche, come dico nel titolo, sotto i piedi!

Per esempio, io tengo continuamente sotto i piedi (e, se guardo a terra, anche sotto gli occhi) il pavimento del mio corridoio di casa, che non solo trovo esteticamente molto piacevole, ma soprattutto mi è caro, perché  in origine era stato posato male e rischiava di compromettere tutta l'armonia della pavimentazione di casa. Sbollita l'iniziale arrabbiatura, la mia mente partorì una soluzione creativa, che trasformò l'errore in pregio, rendendo il pavimento più bello e particolare di quanto fosse stato inizialmente concepito (peraltro a costo zero, perché i responsabili dell'errore furono ben lieti di risolverlo così, anziché rifare tutta la pavimentazione della casa a loro spese!).
Insomma, ancora oggi su quel pavimento ci passeggio sempre volentieri, perché mi trasmette un certo tipo di fiducia e di speranza. Se in quella circostanza una mia risorsa (nella fattispecie, la creatività)  ha funzionato, vuol dire che di base mi appartiene e che potrebbe funzionare ancora bene! Basta magari non trascurarla,  non dimenticarsene, continuare a tenerla sveglia, attiva e allenata: proprio come un muscolo!
Se vi interessano dettagli circa il pavimento del mio corridoio, continuate a leggere questo post, perché ve li racconto volentieri (non sono certo un mistero!).
In caso contrario, vi saluto qui, sperando che questo post possa stimolare qualcuno di voi a dissotterrare le prove nascoste dei suoi successi e a rimettere in moto le sue risorse latenti e sonnecchianti. Il mio augurio per lui è di riprendere a vibrare come il giorno in cui ottenne una certa medaglia, un certo diploma, o un certo successo personale non codificato, e valutare, magari, se non sia proprio da quel successo che ha bisogno di ripartire, per raggiungere nuove sponde.
In questa foto potete vedere il parquet del mio corridoio.
La posa a spina di pesce, in questo ambiente centrale, divide tutta la pavimentazione della casa in due parti: nella zona destra i listoncini sono disposti tutti obliquamente in un certo verso e in quella sinistra tutti nel verso opposto, formando, in certe stanze sì e in altre no, ulteriori spine di pesce a catena.
A fine lavori, risultò che il punto centrale della spina di pesce del corridoio, non era... centrale! La successione di punte formate dall'incontro dei listoncini di legno, creava uno sgradevole effetto ottico non voluto, che squilibrava tutto il disegno verso sinistra. Per risolvere questo problema, secondo lo staff tecnico, bisognava togliere tutto il parquet dal corridoio e, quanto al resto della casa, chissà...
A questo punto cercai di capire per quale motivo il posatore avesse compiuto un errore così grossolano, e cercai di immaginare un nuovo centro della spina di pesce, così come forse l'aveva immaginato lui. Alla fine sono giunta a individuarlo in un'altra serie  di punti di intersezione tra i listoncini, che potevano essere resi visibili tramite la collocazione di una serie di mattonelline nere proprio lì. E il risultato è quello della foto: il centro visivamente corrisponde alla sequenza di mattonelline nere, con un effetto decorativo niente male e una correzione dell'effetto ottico precedente (che riappare nella foto, se omettete di guardare le mattonelline).

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giovedì 14 marzo 2013

Evergreen: "Il credo dell'ottimista" di Christian D.Larson


"Prometti a te stesso:
Di essere così forte che niente potrà turbare la tua pace mentale.
Di augurare salute, felicità e prosperità a tutte le persone che incontri.
Di far sentire a tutti i tuoi amici che in loro c’è qualcosa.
Di guardare il lato luminoso di tutte le cose e di fare in modo che il tuo ottimismo diventi realtà.
Di pensare solo al meglio, di impegnarti solo per il meglio e di aspettarti solo il meglio.

Di essere felice del successo altrui come se fosse il tuo.

Di dimenticare gli errori del passato e di tendere verso maggiori conseguimenti futuri.
Di essere sempre allegro e di donare un sorriso a ogni creatura che incontri.
Di dedicare così tanto tempo al tuo miglioramento da non avere tempo di criticare gli altri.
Di essere troppo grande per albergare preoccupazioni, troppo nobile per accogliere ira, troppo forte per provare paura e troppo felice per permettere che si creino problemi.
Di avere una buona opinione di te stesso e di proclamarlo al mondo, non con grandi parole, ma attraverso grandi azioni.
Di vivere confidando che il mondo sia dalla tua parte, finché segui sinceramente la tua parte migliore."


(dal libro di Christian D. Larson, "Your Forces and How to Use Them", 1912)

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venerdì 25 gennaio 2013

Camminare come forma di meditazione

"E' necessaria, per farsi camminatori, un'espressa dispensa dal Cielo." (Henry David Thoureau)
Ho cominciato a fare lunghe camminate meditative, alcuni anni fa: un giorno che ero reduce da una solenne arrabbiatura e avevo deciso di non tornare a casa fino a che non mi fossi calmata del tutto.
Allora cominciai a mettere semplicemente un piede davanti all'altro, e l'altro ancora avanti e così via, senza una meta precisa, e feci questo, diciamo, per un paio d'ore. Quando tornai a casa ero sudata e spettinata, ma in pace col mondo... e una doccia calda fece il resto.
Da allora ho cominciato a prendere in seria considerazione questa pratica, come forma di cura di sé,  sia dal punto fisico sia dal punto di vista mentale/spirituale.
Quando mi avvio in queste camminate, dico a chi me lo chiede che "vado a fare due passi", ma in realtà  si tratta di qualcosa di più. Si tratta di una specie di meditazione in movimento.   
Qualcuno parla a riguardo di "camminata consapevole". Infatti, come ogni altra attività, anche una camminata può essere fatta in modo consapevole o in modo non consapevole.
Camminare in modo consapevole è "camminare camminando", essere cioè completamente assorti in ciò che si sta facendo: la camminata.
Questo significa non avere la mente altrove, assorta in chissà quali grovigli di pensieri, ma averla presente nel momento, centrata su ogni singolo passo, sul lavoro dei nostri muscoli, sulle sensazioni che si sviluppano sotto le piante dei piedi e nel resto del corpo in movimento, mentre l'aria fresca ci entra nei polmoni e ci carezza la pelle, accompagnata dal  profumo delle foglie, dal fruscio dei rami  degli alberi o dal battito d'ali di un uccellino che si solleva in volo davanti a noi.
Questo non vuol dire che non ci verranno in mente pensieri che ci distraggono dalla nostra camminata. Loro verranno, noi li riconosceremo e con molta gentilezza li lasceremo andare, ce li lasceremo alle  spalle, mentre continuiamo a procedere passo dopo passo..
Immaginiamo, trattando con questi pensieri, di avere a che fare con una brava persona che vuole interromperci durante un lavoro importante e delicato; le diciamo con garbo: "Mi dispiace, ora sono occupato, ne parliamo dopo", e    riportiamo la nostra attenzione sul nostro lavoro. 
Durante queste passeggiate, possiamo andare alla scoperta di luoghi sconosciuti o avere in mente una bella meta da raggiungere: va bene sia l'una sia l'altra opzione. In queste camminate, infatti, è soprattutto lo spirito del viaggio che conta: la nostra capacità di trovare appagamento ad ogni passo del cammino e apprezzare la vita come ci si rivela a ogni istante.
Questo atteggiamento peraltro può essere esportato a qualunque momento della nostra vita, che spesso nel suo insieme è simboleggiata come viaggio, cosa che non è poi tanto distante dall'idea di una lunga camminata.
Ma anche senza arrivare a tanto (perché noi, gente che corre, quando corriamo corriamo e non possiamo sempre badare alle finezze), possiamo comunque sentirci meglio, sia fisicamente sia psicologicamente, se riusciamo a ritagliarci momenti da dedicare ad un'attività del genere.
All'inizio, se siamo fuori allenamento, possiamo cominciare con camminate brevi, di dieci minuti, e poi via via magari aumentarne la durata.
A volte anche una piccola passeggiata può dare i suoi vantaggi: dipende da come sappiamo valorizzarla.
Per dirla con il poeta inglese Rupert Brooke, che celebrava le gioie della quiete, fortunati coloro che sono capaci di "fare scorta di tranquillità e soddisfazione... e attingervi in seguito, quando la fonte manca ma il bisogno è grande".  
***
"...Poi impariamo
che non c’è un cammino di pace;
camminare è la pace;
non c’è un cammino di gioia;
camminare è la gioia.
Noi camminiamo per noi stessi.

...Cammina e tocca la pace di ogni istante.
Ogni passo è una fresca brezza.
Ogni passo fa sbocciare un fiore sotto i nostri piedi.
Imprimi sulla terra il tuo amore e la tua gioia.
La terra sarà al sicuro
se c’è sicurezza in noi."

Thich Nhat Hanh (monaco Zen vietnamita)
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vedi anche il post: portare a passeggio l'artista bambino
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martedì 20 novembre 2012

Accettare le circostanze in cui ci troviamo in questo momento



Che si tratti di un arazzo, di un tappeto o della nostra stessa vita, l'importanza di un filo nero o di un filo d'oro, in una trama, si giudica male in corso d'opera. Per quanto sia grande il piacere o il dispiacere con cui accogliamo  nella trama di un arazzo un nuovo filo, o nella nostra vita una nuova esperienza, i suoi effetti (positivi o negativi) sul disegno complessivo si rivelano solo nel tempo. A lavori in corso, possono esserci passaggi essenziali il cui valore ci sfugge. Sono soprattutto i momenti in cui, per esempio, si tesse un aspetto secondario della scena, si disegna un dettaglio  non particolarmente edificante, si costruisce lo sfondo, si colora una zona grigia, si rappresenta un elemento umile d'arredo, si lavora sulle comparse anziché sui protagonisti. 
Eppure è importante saper accettare ogni fase della tessitura della nostra trama, riconoscendo che ogni momento è necessario, ha un suo valore, e dobbiamo comunque passarci.
Accettare le circostanze in cui ci troviamo in questo momento, invece di opporre ad esse resistenza, è il primo passo per poter cambiare qualcosa. Continuare a tessere il nostro arazzo, anche quando si deve lavorare alla zona grigia, è il primo passo per avvicinarsi alla zona successiva dai bei toni che ci attirano.
Oggi accetta la tua realtà, accetta i limiti che essa ti impone, e riconosci che tutto fa parte del viaggio: anche questo preciso momento. Accetta i tuoi anni, i tuoi chili, il tuo saldo sul conto corrente, i vetri delle tue finestre macchiati di pioggia, le ammaccature sul paraurti della tua automobile e quant'altro appartiene al tuo presente, così com'è (e non come dovrebbe essere): al tuo presente reale. 
Quando accettiamo le condizioni in cui ci troviamo, sinceramente e profondamente, il nostro animo si ammorbidisce, ci rilassiamo, cessa la nostra opposizione a ciò che è reale, e subentra un senso di sollievo e di liberazione.
Solo quando cessa la lotta contro le cose della vita così come sono, può cominciare il processo di risanamento. 
A quel punto è come se cominciassimo a emettere una vibrazione diversa e divenissimo più positivi.
In un certo senso è come se l'accettazione sbloccasse qualcosa dentro di noi, e gettasse una luce diversa sulla nostra realtà, consentendoci di vederla meglio, qui ed ora, e quindi di vedere meglio anche qual è il passo successivo da fare.
(Il che in fondo non è molto diverso dal dire: conosci e accetta i tuoi limiti, se vuoi superarli.)


domenica 11 novembre 2012

L' Uomo che piantava gli Alberi

Mi sono imbattuta per caso in un bel racconto dal titolo "L'uomo che piantava gli alberi" (L'homme qui plantait des arbres) di Jean Giono, pubblicato nel 1953.
E' la storia di Elzéard Bouffier, un pastore che l'autore dice di aver incontrato nel 1913, in una regione delle Alpi che penetra in Provenza.
A quell'epoca la zona era deserta, senza alberi e disabitata, e ovunque cresceva  solo lavanda selvatica.
Il pastore si era ritirato a vivere in solitudine lassù dopo la morte del suo unico figlio e poi di sua moglie. Se ne andava in giro tutti i giorni con una bella scorta di ghiande ed un bastone di ferro.
Ogni tanto si fermava, faceva un buco nel terreno con il bastone e ci metteva dentro una ghianda, che poi ricopriva di terra.

"Piantava querce. Gli domandai se quella terra gli apparteneva. Mi rispose di no. Sapeva di chi era? Non lo sapeva. ... Non gli interessava conoscerne i proprietari.
Piantò così le cento ghiande con estrema cura...
Da tre anni piantava alberi in quella solitudine. Ne aveva piantati centomila. Di centomila, ne erano spuntati ventimila. Di quei ventimila, contava di perderne ancora la metà, a causa dei roditori o di tutto quel che c’è di imprevedibile nei disegni della Provvidenza. Restavano diecimila querce che sarebbero cresciute in quel posto dove prima non c’era nulla."

 Quando l'autore tornò a visitare quei luoghi, dopo la prima guerra mondiale, era il 1920.

"Avevo visto morire troppa gente in cinque anni per non immaginarmi facilmente anche la morte di Elzéard Bouffier ... Non era morto. ...
Le querce del 1910 avevano adesso dieci anni ed erano più alte di me e di lui. Lo spettacolo era impressionante. Ero letteralmente ammutolito e, poiché lui non parlava, passammo l’intera giornata a passeggiare in silenzio per la sua foresta. Misurava, in tre tronconi, undici chilometri nella sua lunghezza massima. Se si teneva a mente che era tutto scaturito dalle mani e dall’anima di quell’uomo, senza mezzi tecnici, si comprendeva come gli uomini potrebbero essere altrettanto efficaci di Dio in altri campi oltre alla distruzione."

Fatto sta che Bouffier continuò ancora, per anni ed anni, a piantare alberi, incurante di ciò che avveniva frattanto nel resto del mondo (compresa la seconda guerra mondiale!) e la zona, un tempo deserta, un po' alla volta si trasformò radicalmente.
La qualità dell'aria migliorò, i torrenti tornarono ad essere ricchi d'acqua, e molte persone tornarono a vivere nei dintorni.

Di seguito un'animazione della parte centrale della storia  di Elzéard Bouffier


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Le parti 1/3 e 3/3 di quest'animazione sono ai seguenti link (il cui ritmo mi sembra però un tantino lento per gente... abituata a correre!).
Video 1/3 - "L'uomo che piantava gli alberi"
Video 3/3 "L'uomo che piantava gli alberi"
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link al testo del racconto
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Questa storia è un buon esempio di uno dei tanti modi in cui si può affrontare una crisi.
Quando Elzéard Bouffier si ritira in solitudine sulle montagne, ha perso tutto: il suo unico figlio, sua moglie, e anche la fattoria dove viveva con loro.
Arriva in un luogo desolato e sente che può fare qualcosa, sente che vale ancora la pena fare qualcosa prima che la sua vita si chiuda.
Non è giovane. Ha un'età in cui di solito le persone pensano di aver già portato a compimento i propri progetti. Eppure inizia la sua opera, e lo fa con ostinazione, testardamente, senza scoraggiarsi di fronte alle difficoltà. Non dà per scontato che tutto ciò che pianta sopravviverà, crescerà. Per avere dieci querce, deve interrare cento ghiande, che precedentemente avrà dovuto accuratamente scegliere e selezionare. 
Così facendo, giorno dopo giorno, da solo e in silenzio, riesce a trasformare una terra desolata, abbandonata da Dio e dagli uomini, in un luogo in cui la vita ritorna in tutte le sue forme: le foreste ricrescono, si ripopolano di tante forme di vita, l'acqua  riprende a scorrere, i vecchi villaggi abbandonati si ripopolano anch'essi.
Eppure Elzéard Bouffier non ha ricostruito le case, non ha ripulito i ruscelli, non ha condotto sul posto animali e persone, né ha curato gli orti o intonacato le case.
Lui è stato semplicemente e ostinatamente fedele alla sua idea, al suo progetto: riportare gli alberi su una terra desolata. Il resto è venuto da sé.
Quanti altri Elzéard Bouffier esistono al mondo, sconosciuti e silenziosi? Forse ognuno ne ha un pezzetto potenziale dentro di sé.
Del resto, nella storia umana, qualcuno ha pur dovuto scoprire il fuoco,  o inventare la ruota e la scrittura, o ideare e realizzare i primi strumenti per coltivare la terra, per cacciare, pescare,  cucinare, cucire i vestiti.  Sono state costruite palafitte (e anche costruzioni diverse, certo!), sono stati dati nomi alle cose e alle rappresentazioni mentali che ne abbiamo, fino a creare lingue complesse, e in queste lingue fiabe, miti e poesie. Insomma, sono migliaia e migliaia  le opere degli uomini nella storia, frutto di inventiva e creatività, spesso  espressa in modo silenzioso nel lavoro quotidiano di tante persone, impegnate nelle attività più varie: artigiani, scienziati, casalinghe...
Molte volte tutto questo non è che la risposta - una delle tante possibili risposte - a cui si è arrivati dopo una lunga ricerca, messa in moto da un problema, da una cosa nuova da affrontare.
Proprio come avviene in ogni crisi della vita.
***
E di ciò che avviene nelle crisi della vita, parlerò in un prossimo post.




sabato 22 settembre 2012

Perdonare per sentirsi bene

"Perdona gli altri,
 non perché essi meritano il perdono,
 ma perché tu meriti la pace."
 (Buddha)

***
Ieri una donna mi ha detto: "Non sono io, a non essere serena: sono gli altri che mi fanno arrabbiare!". Ed effettivamente sembrava un po' arrabbiata pure mentre lo diceva. Ma arrabbiata di che, in quel momento, visto che - in quel preciso momento -  nessuno le stava facendo niente?
Il ricordo delle offese e delle prepotenze subite, e tutti i pensieri occasionati da quei ricordi, non facevano che generare nuova rabbia, nuovo dolore, nuovo rancore, che avvelenavano anche il presente, ammorbando,  anche l'aria buona di un momento tranquillo. 
Questo mi dà lo spunto per proporre oggi la rivisitazione di un vecchio argomento, quello del  perdono, abbastanza noto a tante persone anche perché presente, pur con diverse sfumature, in varie fedi religiose.
Non intendo però parlare qui del perdono in quanto atteggiamento nobile o auspicabile secondo parametri religiosi o morali. 
L'importanza del perdono, per i nostri fini, non sta nel fatto che può renderci più buoni o più santi, ma  sta piuttosto nel fatto che porta ad un alleggerimento:  ci libera da un peso dell'anima, da un sentire negativo, da una forma di afflizione che può continuare a seguirci anche dopo molto tempo che l'offesa ai nostri danni è stata perpetrata.
In che modo il perdono può giovare a chi lo elargisce,  a prescindere da qualunque discorso religioso?
Tanto per cominciare bisogna togliersi dalla testa l'idea che il perdono sia qualcosa che facciamo per il bene di un altro, un regalo che facciamo a chi ci ha offeso. Al contrario! Dobbiamo considerare il perdono un regalo che facciamo a noi stessi:  un modo per liberarci dal rancore e  per spezzare così un vincolo che ci tiene legati  a doppio filo  proprio alla persona che ci ha offeso. Fino a che non l'avremo perdonata, questa persona continuerà a farci del male, perché noi ce la porteremo dentro, con tutto un bagaglio di negatività che ci avvelena l'esistenza e che si aggiunge al danno che abbiamo già subito con l'offesa in sé.
In secondo luogo, dobbiamo renderci conto che perdonare non equivale a rinunciare ad ottenere giustizia. Spesso si confonde il perdono con l'indulgenza. Perdonare non implica che chi ci ha offeso non debba essere ritenuto responsabile del suo agire immorale, disonesto o illegale. Se l'offesa che ci è stata arrecata è risarcibile o è sanzionata in qualche modo dalla legge, è giusto e sano pretendere il risarcimento  materiale e morale che ci spetta. Se abbiamo ragione, è giusto che questa ragione ci venga riconosciuta. Per quale motivo mortificarci (al di là di nostre eventuali segrete aspirazioni di santità tramite il martirio)? Perdonare è un altro discorso: significa andare avanti con "la causa" e intanto lavorare per far andare via il dolore, la rabbia, il rancore; significa cioè trovare un modo per spezzare il vincolo emotivo che ci lega alla controparte, e che, finché permane, ci rende perdenti anche in caso di... sentenza favorevole. 
E che rispondere a quelli che dicono: "Io perdono solo chi se lo merita"?
Semplicemente che è controproducente aspettare, per perdonare, che l'altro "meriti" il nostro perdono, che cioè "faccia qualcosa" per meritarlo. In questo modo, infatti, continuiamo a dare all'altro il controllo sulla nostra vita, mentre il perdono è una scelta che facciamo noi, solo per noi e per il nostro bene.
Messo così, questo perdono potrebbe avere un po' l'aria di un "atto egoistico". Non lo so, forse lo è. Ma ciò non significa che sia negativo! E' anzi un atto di egoismo positivo, se così si può dire: uno dei gesti più amorevoli e positivi che possiamo fare verso noi stessi.
Che poi da questo perdono derivi anche, indirettamente, un miglioramento nei rapporti con gli altri, è  possibile, certo, ma non è l'aspetto essenziale dell'esperienza. Infatti si possono ottenere benefici dal perdonare, anche senza che la persona perdonata sappia di... essere stata perdonata. Può trattarsi  di persone che non sono più in vita, o che sono irraggiungibili per altri motivi.
L'importante non è che loro sappiano che le abbiamo perdonate, ma che noi sappiamo di esserci liberati dalla rabbia e dal rancore che provavamo verso di loro, che ci opprimevano, che ci pesavano, e che ora non ci opprimono e non ci pesano più. 
Perché è proprio questo che fa il perdono. Ci libera da un grosso carico di negatività e consente a nuove energie di fluire nella nostra vita, alleggerendola di inutile zavorra e rendendola più positiva e serena.
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Il discorso sul perdono, in quanto via di promozione della serenità e del benessere, non si esaurisce certamente qui. Ci sarebbe ancora moltissimo da dire, a riguardo.
Chiunque si metterà alla ricerca di informazioni e teorie sull'argomento, troverà molto materiale, un po' per tutti i gusti. E' anche per questo motivo che mi fermo qui, nel rispetto del patto iniziale, per cui, anche se la nostra meta è unica, ognuno di noi la raggiungerà nel modo che gli è più congeniale.
Tra gli argomenti che non trovano spazio su questa pagina, alcuni hanno premuto fino all'ultimo, per cercare di entrare. Ho detto no, ma almeno li cito.
Resta aperto l'argomento non secondario di "come si faccia" a perdonare. A riguardo la varietà delle proposte è davvero molto ampia; chi è interessato e davvero motivato si metterà alla ricerca degli strumenti e delle tecniche più adatte al suo caso, e prima o poi troverà quella giusta per lui.
Restano infine aperti altre due temi importanti: il perdono di se stessi (riuscire a perdonarsi) e il desiderio (a volte disperante) di essere perdonati da qualcuno (importanza attribuita all'essere perdonati). E avremo modo di parlare anche di questo, una volta o l'altra.
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Forse ho tirato fuori troppa roba per una sola donna che ieri mi ha detto: "Non sono io, a non essere serena: sono gli altri che mi fanno arrabbiare!" 
Ma ormai a questo punto che vi posso dire? 
Perdonatemi... 
 ;-) 
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Vedi anche: Come fare per perdonare? Le quattro fasi del perdono secondo Clarissa Pinkola Estés

venerdì 14 settembre 2012

Influire sulla qualità delle proprie giornate. Il Brontolatoio.


Se siete di quelli che la mattina si svegliano pensando: "Oh, che bello, comincia una nuova sorprendente giornata tutta da vivere", risparmiatevi la lettura di questo post e tanti complimenti.
Se invece appartenete al gruppo di tutti gli altri, allora provate a far caso alle prime cose che vi passano di solito per la mente la mattina, appena aprite gli occhi. Anzi, ancora meglio: scrivetele su un quaderno, un quaderno apposito (il mio l'ho chiamato "il Brontolatoio", ma per esempio la mia amica Julia, che è una donna di classe, chiama il suo "le Pagine del Mattino").  Non c'è tempo di mettersi a scrivere, la mattina appena svegli? Bene. Allora scrivete questo: "ore 7.00 - non c'è tempo di scrivere. Ci vediamo alle ore...", e cercate di mantenere questo appuntamento quotidiano. Dedicatevi una pausa di solitudine, durante la giornata, e scrivete  di getto su questo quaderno qualunque cosa occupi spazio nella vostra mente e vi appaia, come dire, un tantino ingombrante, pesante, non esattamente edificante.
Il Brontolatoio non è un diario personale e nemmeno il romanzo della vostra vita. Non dovete sforzarvi di scrivere cose interessanti, intelligenti o artistiche. Consideratelo piuttosto uno dei tanti contenitori della raccolta differenziata rifiuti. Buttateci dentro i vostri rifiuti mentali e fatelo tutti i giorni, per due-tre pagine al giorno, come una funzione necessaria: necessaria allo stesso modo del rito di portare giù i sacchetti della spazzatura di casa. Provate a immaginare come sarebbe la vostra vita se il sacchetto dei vostri rifiuti organici, anziché stare sotto al lavello o sul balcone della cucina, stesse sempre con voi, sopra alla vostra testa e, bello pieno pieno, vi facesse compagnia per tutta la giornata! Il fatto che i nostri rifiuti mentali non abbiano una consistenza materiale, una vera e propria massa, non significa che non abbiano un loro peso sulla nostra testa (e direi anche un loro "colore" se non addirittura un loro "odore"): la loro presenza può incidere sensibilmente sulla qualità percepita delle nostre giornate.
Mettere nel Brontolatoio questi pensieri, significa collocare i nostri rifiuti mentali in un luogo appropriato: in un cestino della raccolta differenziata collocato altrove rispetto alla nostra testa.
Quest'attività non  risolve nell'immediato anche il problema dello "smaltimento" di questi rifiuti.  Proprio come avviene per i rifiuti materiali, il discorso dello  smaltimento è uno step successivo rispetto a quello della raccolta! Cominciamo da questa, e poi vedremo il da farsi.
Se dedicherete quotidianamente  un pochino del vostro tempo alla pratica del Brontolatoio, un po' alla volta vi accorgerete dei suoi effetti benefici, che però non sono né immediati né appariscenti: sono anzi differiti e diffusi.
Voi provate a praticare questa attività per qualche settimana e stabilite da voi che effetto vi fa e se cambia qualcosa, un po' alla volta, nella qualità percepita delle vostre giornate (la qualità percepita non riguarda gli eventi che vivete, riguarda piuttosto il vostro modo di viverli, quello che provate, quello che pensate, come reagite ad essi).
C'è chi dice che mettere nero su bianco i propri pensieri aiuta a metterli in ordine; c'è chi riferisce che a furia di lamentarsi sempre delle stesse cose tutti i giorni, alla fine si prende atto che è il momento di affrontare di petto certe situazioni rimaste in sospeso;  c'è chi trova finalmente le parole per ammettere almeno con se stesso sentimenti ed emozioni difficili da accettare apertamente; e c'è chi semplicemente sfoga sul quaderno la propria dose di negatività quotidiana ed evita così di scaricarla sulla prima persona che incontra, sul partner, sui figli, sui colleghi, sui clienti, migliorando così la qualità delle proprie relazioni.
Tempo fa mi è stato raccontato di una specie di supermanager in giacca e cravatta, che fu visto uscire di corsa da un bar perché era scattato l'allarme antifurto della sua spider fiammeggiante parcheggiata là fuori. Due scugnizzielli napoletani erano montati a bordo e stavano giocando ai padroni della macchina. Non l'avevano forzata, né avevano tentato di rubarla. Si erano solo seduti dentro: uno al posto di guida, le mani sul volante, e l'altro accanto, probabilmente a sognare la velocità, il vento nei capelli, gli sguardi delle donne. Una violazione di proprietà sì, ma in un certo senso rispettosa. Un gioco da ragazzi, un modo sui generis di rendere onore a un giocattolo così bello e irraggiungibile. Il supermanager si fece afferrare per pazzo, si mise a strillare, tirò fuori dalla macchina i ragazzini e cominciò a strattonarli, a insultarli, a prendersela con loro, con le loro madri, con Napoli, con i terroni tutti, finanche col Vesuvio che aveva smesso di lavorare invece di fare pulizia di tanta inciviltà. Poi prese fiato e salì in macchina per andarsene. Il suo l'aveva fatto, tutto quello che doveva dire l'aveva detto e, chissà, magari si era pure pentito di aver perso le staffe a quel modo. Fece manovra davanti al piccolo pubblico che aveva assistito alla scena e allontanandosi sentì i ragazzini gridargli dietro in napoletano una domanda molto personale accompagnata dalle risate della gente.
I ragazzini gli mandavano a chiedere, in maniera colorita e irriverente, se avesse evacuato regolarmente quella mattina.
Ecco.
Io mi ricordo della domanda dei due scugnizzielli, ogni volta che vedo qualcuno reagire in maniera esagerata a un piccolo inconveniente della vita. Mi chiedo: "Cosa sta evacuando, questa persona, qui e ora? Quanta rabbia preesistente, quante frustrazioni accumulate, quanta negatività allo stato libero che non ha trovato uno sbocco migliore?".