Visualizzazione post con etichetta coltivare relazioni umane significative. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta coltivare relazioni umane significative. Mostra tutti i post

mercoledì 25 dicembre 2024

Meditazione di Natale. Vedere la bontà profonda




Appuntamento il 25 dicembre alle 10:30 su YouTube per la première della Meditazione di Natale.

Quest'anno si tratta di una riflessione guidata sulla bontà profonda, un invito a vedere l'intima luce che brilla in ogni persona e in noi stessi anche quando è offuscata dalle circostanze del momento.

La meditazione è su YouTube al link: https://youtu.be/prlwq6wgenE?si=yhRotuAVvRnbQmZT



A volte ci viene facile, immediato, accorgerci dei difetti delle persone, mentre l'apprezzamento puro e semplice delle loro buone qualità può richiedere uno sforzo di attenzione.


Può capitare che non diciamo esplicitamente a una persona quanto apprezziamo certe sue caratteristiche, certi suoi comportamenti, certi suoi modi di pensare, di sentire, di essere. Il buono che c'è in lei, insomma.


Perché non glielo diciamo?
A volte perché siamo distratti e non ci accorgiamo di queste buone qualità, altre volte perché, pur accorgendocene, le diamo un po' per scontate oppure non ci viene naturale fare apprezzamenti, ci sentiamo intimiditi, un po' a disagio all'idea di farli.


In realtà il rispecchiamento altrui (l'immagine che gli altri ci rimandano di noi stessi) ha una certa influenza sul modo in cui ci sentiamo e alla fine anche sul modo in cui ci comportiamo.


Per fare un esempio minimo (ora che si sta a tavola per le feste) se qualcuno continua a dirci che cuciniamo proprio bene, che i nostri manicaretti sono una vera squisitezza e una gioia per il palato, magari questo ci dà fiducia nelle nostre capacità culinarie, ci incoraggia a preparare nuovi cibi mettendoci impegno e amore, e questo favorisce l'ottenimento di buoni risultati. Se al contrario, nonostante il nostro impegno, le pietanze che prepariamo vengono mangiate senza commenti o solo con commenti negativi, facilmente possiamo considerarci non particolarmente dotati per la cucina e può passarci la voglia di mettere cura e fantasia nella preparazione dei pasti.


Ovviamente questo vale anche per altre aree della nostra vita ben più importanti della cucina, dove la misura del nostro valore in qualche modo transita attraverso gli occhi di chi ci guarda.


In realtà per poter dare a qualcuno un rispecchiamento positivo è necessario, a monte, che noi ci accorgiamo che in quella persona qualcosa di buono c'è.


Si potrebbe dire che "apprezzare" ha a che fare con la mindfulness, perché è consapevolezza del positivo, del buono che c'è.


Di fatto tutti vorremmo avere dentro qualcosa di buono. E molte volte non siamo tanto sicuri di avercelo, anche se gli altri ce lo dicono (figuriamoci se non ce lo dicono o dicono il contrario...).


Per cui la questione è a doppio senso.
Ben venga se qualcuno ci fa notare che abbiamo dentro qualcosa di buono, perché magari cominciamo a crederci anche noi e a regolarci di conseguenza, perseverando nel bene o cominciando davvero a combinare qualcosa di buono.


Ma ben venga che anche noi stessi, guardandoci attentamente per come siamo fatti, riusciamo ad apprezzare le nostre buone qualità, la nostra bellezza segreta, la nostra bontà profonda.
Molti di noi sono bravissimi a criticarsi senza nessuno sforzo, ma per arrivare a un sincero apprezzamento delle proprie qualità devono proprio impegnarsi.


Quindi la pratica di Natale quest'anno mira proprio a questo: a risvegliare la nostra attenzione e a farci vedere quanto c'è di buono in noi stessi e negli altri.


Il passo successivo è di provare ad assumere lo stesso atteggiamento anche nella vita ordinaria, provando a chiederci, ogni volta che interagiamo con qualcuno: "Che ci sarà di buono in questa persona?" e aspettando con fiducia e curiosità l'emergere di una risposta.


E questo, fidatevi, se diventa un atteggiamento che coltiviamo con costanza, può portarci davvero molto lontano.

Buon Natale a tutti!





               
   

martedì 25 ottobre 2022

Fiducia, amicizia, silenzio e poche preziose parole. Storia di una camminata nel bosco



In questo periodo ho un braccio ingessato e sono un po' limitata nell'autonomia degli spostamenti. Non posso guidare e mi stanco  facilmente quando mi spingo a piedi oltre un certo raggio da casa. 
Questo mi ha privata del grande piacere di andarmene a camminare ogni tanto da sola in silenzio nel bosco, cosa che mi fa così bene da poter quasi dire che mi fa male non andarci.

Domenica scorsa, una mia cara amica ha deciso di farmi un bel regalo e di accompagnarmi con la sua automobile fino al bosco più vicino.
Lei è un'amante del mare, lo so.  Per cui so anche che mi ha fatto un regalo da vera amica - un'amica attenta ai miei bisogni - optando per il bosco anziché per il mare, per una gita insieme.
Gliene sono stata davvero grata.  
Ma... c'era un "ma". 
Perché il regalo fosse per me un "vero" regalo, doveva essere accompagnato anche da un altro dono: il dono del silenzio. Ma come dire una cosa del genere a una persona senza rischiare di urtare la sua sensibilità?
Insomma... non solo usciamo con la sua macchina, non solo si va dove piace a me, anziché dove piace a lei, ma poi si deve pure stare in silenzio? So di amicizie che hanno cominciato a scricchiolare per molto meno.

Ho fatto un respiro. 
Per qualche motivo mi è tornata alla mente la pratica del luogo sicuro e una domanda che a volte si pone in accompagnamento a questa pratica, e cioè: quali persone sono ammesse nel vostro "luogo sicuro"?
Come a dire, se c'è un luogo (reale o immaginario) il cui solo pensiero vi rasserena, vi rassicura, vi fa sentire liberi e in pace, quali persone potrebbero stare lì con voi senza che il luogo perda queste sue proprietà benefiche?

Mi sono concessa allora di tornare per un momento con la mente in qualche bosco amico, luogo di libertà e di pace. 
Ogni presenza di tipo vegetale che si presentava alla scena era in piena sintonia con l'influsso benefico del bosco (i grandi alberi, le felci, i ciclamini, ogni filo d'erba, ogni foglia secca). 
Anche alcune presenze animali (il canto degli uccelli, la corsa di una lucertola, il volo di una farfalla). 
E presenze umane? Ma sì, nei boschi reali ho incrociato tante volte altre persone, a volte ci sono proprio andata con altre persone. La questione che fa la differenza quando c'è qualcun altro con me è se stiamo realmente nello stesso posto, con la mente, con il corpo, col cuore.

Una volta, camminando da sola, ho incrociato una donna della mia età con lo sguardo pieno di luce che mi ha chiesto:
«Come si sta qua?». 
Io le ho risposto: «Una meraviglia». 
Lei ha fatto cenno di sì con la testa e ha detto: «Quando vengo qua, poi torno a casa con il cuore pieno di pace». 
«È così anche per me», ho ribattuto io. 
Ci siamo scambiate un sorriso. Eravamo davvero nello stesso posto e l'esperienza ci accomunava profondamente. Con poche parole ci eravamo dette tutto e potevamo anche proseguire ognuna per conto suo.

Una volta ci sono andata in compagnia di gente esperta, che ha interrotto in tutto o in parte la magìa del luogo con raffiche di notizie storiche e dati scientifici, utilissimi certamente per catalogare, raccontare, informare il visitatore sul perché e il per come dei fenomeni della natura, ma che non consentivano l'ascolto dell'anima del bosco, che è potente ma parla a bassa voce.

Una volta c'era una pioggia leggera ed era un giorno feriale, e questo sussurrare gentile era amplificato dal suono delle gocce d'acqua che giocavano con ogni singola foglia. Uno dei custodi del luogo, in piena sintonia con questa musica, mi ha detto poche precise parole che mi hanno aiutata a comprendere il luogo più in profondità. Giardino contemplativo, ogni scorcio come un quadro, profumo dell'albero della canfora. Avrei aggiunto: riflesso di Dio in ogni goccia d'acqua. Ma l'ho tenuto per me. Per l'intimità dei miei occhi. Per godermi la pienezza del non detto.

Mi sono ricordata che queste mie passeggiate sono iniziate in un periodo in cui il mio medico di base dell'epoca (che ora è andato in pensione) mi aveva suggerito caldamente di mettermi a camminare per motivi di salute ed io lo avevo preso in parola, con  risultati sorprendenti.
Chi passa in automobile per la strada in cui abito, è facile che mi veda camminare da sola, con l'aria di una che non va da nessuna parte ma cammina per camminare. Anche il dottore mi vedeva e mi diceva: 
«Se tutti i miei pazienti mi ascoltassero e camminassero come fa lei...»
Il dottore era appassionato di varie cose che appassionavano anche me, per cui bastò poco per arrivare a parlare tra noi degli effetti benefici della camminata anche sulla mente e sullo spirito, oltre che sul corpo.
E di lì a parlare del valore del silenzio durante la camminata il passo fu breve. Allora si parlò di camminata consapevole senza che io mi rivelassi per istruttrice di una simile pratica, intesa come pratica di mindfulness, perché mi stavo godendo con lui il piacere di parlarne come esperienza umana preziosa in sé e per sé. 
E il dottore allora mi sorprese, perché mi disse: «Magnifica la camminata consapevole! L'ha mai fatta a marcia indietro?».
Cavoli... era un intenditore, il dottore. Infatti aggiunse: «Eh... è una bella prova di fiducia».
Avrebbe potuto anche dire: «di fiducia e di coraggio», ma alla fine non ce n'era bisogno. Sapevamo entrambi che, superata l'età dell'innocenza, la fiducia stessa molte volte può essere considerata una prova di coraggio.
Non ci addentrammo oltre sulla questione fiducia (fiducia in che, fiducia in chi) perché la nostra attenzione atterrò presto sulla strada di casa mia, che poi era anche la strada del suo ambulatorio.
Farla a marcia indietro avrebbe significato davvero andare in cerca di guai, con tutte le sorprese che riservano i marciapiedi.
Non basta che una via ci sia familiare per chiudere gli occhi alle sue insidie. 
La camminata all'indietro richiedeva luoghi più sicuri.

L'amica che domenica scorsa mi ha portata nel bosco era una delle persone che in passato, sfrecciando in macchina, mi avevano vista  camminare per strada con l'aria di chi cammina per camminare.
Ci conoscevamo, ma ci eravamo perse di vista da molti anni.
Un giorno mi mandò un messaggio che diceva: 
«Ti ho vista camminare da sola. Posso aggregarmi in silenzio?». Risposi di sì. E così cominciammo a camminare insieme ed andammo insieme anche nel bosco ogni tanto, e anche al mare.
Solo che è una persona molto simpatica e interessante, non ci vedevamo da secoli, ne avevamo passate di tutti i colori in tanti anni. Avevamo proprio tanto tantissimo da raccontarci.
Avevo ritrovato un'amica ma forse stavo perdendo la mia compagna di camminate.

Ho deciso allora di puntare su un atto di fiducia: avrei confessato il mio bisogno di natura e di silenzio alla mia amica, confidando nel fatto che mi avrebbe capita.
«Ho bisogno di natura e silenzio», ho scritto.
«Anch'io, uguale uguale», ha risposto.
Ed è stata una magnifica mattinata di ritorno alla terra, agli alberi, ai ciclamini, alle farfalle, ai giochi di luce tra le foglie fruscianti e al respiro di vita della natura, insieme anche ai moscerini, alle vespe e a qualche tronco secco da scavalcare. 

Non abbiamo parlato mai mai?
Sarebbe una bugia dire questo. Ma sicuramente ci sono state solo poche vere preziose parole, in sintonia con l'anima del luogo. 

Tra due grossi lecci correva a un certo punto una lunga zona di prato.
L'abbiamo scelta per una passeggiata consapevole a piedi scalzi da un albero all'altro.
L'erba era umida. Una bellezza. C'era pure qualche buca.
La mia amica dice: 
«Mi piace non guardare a terra e fidarmi di ciò che sento sotto i piedi».
Le sono grata per queste parole.
Questo intendo per poche vere preziose parole, in sintonia con l'anima benefica del luogo.
Il cuore e la mente stanno tornando sulla fiducia. Mi posso fidare di ciò che sentono i miei piedi, mi posso fidare di ciò che sento anche se non vedo bene la strada. 

Quando siamo arrivate al leccio che avevamo di fronte, ho proposto di tornare al leccio che avevamo alle spalle senza voltarci, a marcia indietro, come diceva il dottore.
Non vedere la strada che stai percorrendo, non vedere il punto verso cui stai andando.
Siamo nel luogo sicuro, ma quanto sicuro? Le buche ci sono, io ho un braccio ingessato. Nell'aria vespe e nugoli di moscerini. Magari nell'erba qualcosa. 
Si va? Si va. Fidandoci di ciò che sentiamo, passo dopo passo, sotto i piedi, nelle orecchie, in qualche luogo tra corpo e mente che ci dà direzione e senso, anche se non sappiamo come funziona.

Abbiamo andature diverse.
A me piace assaporare ogni tanto anche la sosta e indugiare con l'attenzione nelle sensazioni del corpo da fermo.
Lo sguardo in una di queste soste si posa sul piccolo sentiero che c'è tra il leccio che ho di fronte, da cui mi sto allontanando,  e i miei piedi. 
Prima non c'era. È il segno del mio passaggio.
Non me ne sarei mai accorta se non avessi camminato all'indietro. 
Mi torna in mente la poesia Camminare di Antonio Machado: «Viandante non esiste il sentiero, il sentiero si fa camminando…». Ancora una volta poche preziose parole, in sintonia con l'anima del luogo.

La voce della mia amica alle mie spalle intanto dice: «Un passo a sinistra».
Mi fido e faccio un passo a sinistra.
«Un altro passo a sinistra».
Faccio un altro passo a sinistra. 
Mi piace questo seguire senza domandare,  mi piace assaporare questo stato interno di fiducia, riconoscerlo, sentire com'è fatto e come agisce sul corpo, sulla mente, sul cuore.
«Ancora un altro passo a sinistra e poi basta».
Eseguo in silenzio. 
C'è gratitudine. C'è la sicurezza di un buon motivo dietro queste istruzioni.
Proseguo la camminata all'indietro.
Alla mia destra compare la grossa buca che ho appena scansato, grazie ai tre passi a sinistra suggeriti dalla mia amica.

Il mio sentiero nell'erba non è più diritto, ora. Si nota la deviazione prima della buca.
Il mio luogo sicuro non era poi così sicuro, evidentemente.
Alla fine ciò che lo ha reso davvero sicuro è stata proprio la presenza di una persona amica, che era realmente con me... e ha visto una buca che io da sola non potevo vedere.

Una persona di cui potersi fidare anche perché capace di riconoscere il punto di equilibrio tra prezioso silenzio e preziose parole.
Che poi, alla fine, è ciò fa la differenza tra il silenzio che isola le persone e il silenzio che le unisce.










sabato 13 febbraio 2021

Meditazione per una persona amata. Première su YouTube il 14 febbraio alle ore 00:00


Meditazione per una persona amata. Première su YouTube a mezzanotte al link:

https://youtu.be/YtWj3Bqe-9g

Vi aspetto per praticare insieme!

***

Quest'anno per San Valentino una meditazione dedicata ad una persona che amiamo, una persona che ogni volta che ci viene in mente ci porta gioia nel cuore, ci fa sorridere.

Non deve trattarsi necessariamente di un partner sentimentale. A volte può trattarsi anche di un nipotino, di un nonno, di un gatto, di un altro essere vivente facile da amare e che merita di essere ricordato nel giorno in cui si celebra l'amore.

Ricordiamo a noi stessi come ci sentiamo bene quando portiamo nel cuore un sentimento d'amore genuino, caldo, nutriente.

Portiamo l'attenzione su tutta la ricchezza e la gioia che ci viene da questo sentimento e sull'augurio spontaneo di ogni bene che scorre come un fluido da noi verso un'altra persona, per il solo fatto di amarla e di tenerla nel cuore.

La traccia audio resterà sul canale anche successivamente al medesimo link, sia per chi non potesse collegarsi alla première, sia per chi vorrà ripeterla anche altre volte.

Buona pratica e buon San Valentino a tutti!





***


venerdì 21 dicembre 2018

Una meditazione sul cuore per curare le difficoltà relazionali ed accogliere più serenamente il Natale

Dr.Maria Michela Altiero
psicologa
***  +39 3888257088  ***

Se in questo momento siamo innamorati,  siamo corrisposti e stiamo vivendo una relazione felice (...beati noi!), c'è da aspettarsi un buon Natale per il nostro cuore.
Come c'è da aspettarsi un buon Natale, se stiamo facendo i preparativi per il pranzo, per i doni, o per un'altra forma di accoglienza affettuosa diretta a qualcuno a cui teniamo, e di cui pregustiamo, come se fosse nostra, la gioia di ricevere da noi quell'attenzione: i bambini di famiglia, le persone sofferenti di cui ci prendiamo cura profondamente, tutti coloro a cui ci sentiamo sinceramente vicini.
Ma può darsi che il nostro cuore in questo momento non stia vivendo una condizione del genere.
Se portiamo nel cuore una ferita recente, il Natale può risultare per noi un amplificatore della nostra sofferenza.
Se abbiamo litigato con una persona cara, o per qualche altro motivo siamo in freddo con lei, con tutti o alcuni dei nostri parenti o dei nostri amici, il Natale non ci porta il conforto della vicinanza, il calore della connessione, ma anzi amplifica il senso di separatezza, di lontananza dalle persone della nostra vita, di solitudine interiore.
Di fatto non sempre possiamo scegliere ciò che la vita, e in questo caso il Natale, ci porta.
Come i doni sotto l'albero, ciò che arriva non è sempre di nostro gradimento o sotto il nostro controllo.
Possiamo scappare? A volte sì, a volte no. C'è chi a Natale parte, chi prende l'influenza, chi si considera salvato da un turno di lavoro.
Ma supponiamo che vogliamo (o dobbiamo) restare qui, in un Natale tradizionale e scomodo, con le difficoltà relazionali che sappiamo benissimo di avere, magari proprio con le persone più care (il figlio ribelle, il genitore che non ci capisce, il partner che brontola o tace, un altro parente o amico con cui non c'è più comunicazione autentica, ma solo i soliti vuoti salamelecchi natalizi), che abbiamo intenzione di fare?
Possiamo metterci (o tenerci) una bella corazza sul cuore, che protegga e nasconda la nostra vulnerabilità, ma che al tempo stesso ci isola, ci preclude la gioia della vicinanza umana,  o possiamo provare a cambiare l'atteggiamento con cui accogliamo gli altri, per consentire al nostro cuore di vivere la pienezza e il calore che viene dal contatto umano autentico, nonostante l'evidenza che nessuna persona è perfetta e nessuna relazione è immune da qualche forma di turbolenza.
In questo spirito, vi presento la nuova meditazione di Natale.
E' una meditazione sul cuore che può aiutarci ad avere cura delle nostre relazioni, specie se stiamo affrontando delle difficoltà su questo fronte proprio con le persone più care.
E'  ispirata ad alcuni suggerimenti di Saki Santorelli su come coltivare la compassione nel nostro cuore.
Alcune persone, a cui l'ho già proposta, hanno avvertito che qualcosa, durante la pratica, andava sciogliendosi in pianto. Non è detto che ciò capiti a tutti, ma se dovesse capitare non facciamone un dramma.
A volte quando qualcosa riprende a scorrere (nei tubi dell'acqua, nel nostro cuore, nel nostre relazioni), il primo getto può essere dirompente. Accettiamolo.
Vi lascio alla traccia audio con l'augurio sincero di un Natale di luce, calore e amore.
Buona pratica!



giovedì 1 settembre 2016

Doni graditi e doni sgraditi. L'importanza di sentirsi "visti"


In uno dei suoi molti scritti, Donald Winnicott parla di un suo ricordo d’infanzia: la volta cioè che i suoi genitori gli regalarono un cavallino a dondolo.
Quel dono all’epoca gli aveva procurato una gioia enorme perché era proprio il regalo che egli avrebbe desiderato, se solo avesse saputo che quell’oggetto esisteva.
Non sapendo che esisteva, non aveva potuto desiderarlo e nemmeno chiederlo in regalo. Per cui era stata proprio una fortuna che i suoi genitori glielo avessero donato di loro iniziativa! Ci avevano visto giusto.
Lasciando andare ora Winnicott e le conclusioni sicuramente interessantissime che egli trasse da tutto ciò, proviamo semplicemente  a rispondere a questa domanda: cosa avevano effettivamente visto secondo noi i suoi genitori per riuscire a fargli un regalo così gradito?
Una possibile risposta è che avevano visto innanzitutto il bambino reale che avevano di fronte, avevano riconosciuto il suo modo di essere in quel momento della sua vita, avevano compreso i suoi bisogni, i suoi interessi e il suo sentire. Questo aveva permesso loro di dare una risposta adeguata al suo desiderio inespresso e scegliere proprio il dono giusto per lui.
Questo significa anche che, con ogni probabilità, quello stesso dono non sarebbe stato ugualmente gradito dallo stesso Winnicott a trent’anni, o anche a quindici, o magari in un qualunque altro momento della sua vita che non fosse stato quello: quell’unico momento prezioso e carico di magia, dove quel dono era proprio giusto e tempestivo e lo ha reso felice.

Ora proviamo a chiudere gli occhi per qualche momento e a concederci una piccola pausa di raccoglimento interiore. Poi, come meglio ci riesce, proviamo a frugare nel bagaglio dei nostri ricordi e vediamo se riusciamo a trovare traccia di un’esperienza simile a quella appena descritta, la volta cioè in cui abbiamo ricevuto un dono talmente "giusto" per noi, da averci fatto sentire pienamente visti e compresi da qualcuno.

 Può essersi trattato di un oggetto materiale impacchettato in carta da regalo, come il cavalluccio di Winnicott,  anche se  non necessariamente deve trattarsi di una cosa così.

A volte può essersi trattato di una pietanza che qualcuno cucinò apposta per noi, indovinando che ci sarebbe piaciuta, anche se non l'avevamo mai assaggiata prima.

Altre volte può essersi trattato di un altro gesto, o magari di  una parola, uno sguardo, un sorriso,  una stretta di mano al momento giusto, magari mentre un’emozione ci inondava il cuore e quel gesto, quella stretta di mano, quello sguardo, quel sorriso ci ha trasmesso il messaggio: “Ti ho visto, sai; so  quello che stai provando, non sei solo nel tuo sentire”.

A tal proposito Jon Kabat-Zinn  nel suo libro Riprendere i sensi, fa l'esempio molto carino di "quella volta che avevamo fatto cadere per sbaglio un uovo e qualcuno ne aveva buttato per terra apposta un altro per evitarci il senso di vergogna o di solitudine”. Mai vissuto qualcosa di simile?

Comunque sia, tutti questi momenti hanno qualcosa in comune, qualcosa che rende quei doni particolarmente graditi perché, al di là del loro valore oggettivo, ci fanno sentire percepiti, compresi e accettati da qualcuno esattamente  per quello che siamo in un dato momento; qualcuno ha dimostrato che ci ha visto e ci ha concesso di sentirci a nostro agio  proprio così come siamo (e non per come dovremmo o potremmo essere in base a questo o quel modello).
E questo sentirsi visti  è un ristoro per l’anima, una boccata d’aria buona riconosciuta dal cuore, dal corpo e dalla mente, che ci fa sentire bene.

Ora però un po’ alla volta sciogliamoci dall’abbraccio caldo di questi ricordi - se sono arrivati - e prepariamoci ad una piccola doccia fredda (giusto per tonificarci un po’, secondo lo stile dei percorsi Kneipp alle terme, dove da un momento all’altro passiamo dalla piscina d’acqua calda a quella d’ acqua ghiacciata, ripetendo a noi stessi che ci farà bene...).

Riportiamo alla mente un momento in cui ci siamo sentiti non visti, non compresi oppure equivocati, e questo si è tradotto nel ricevere un dono sgradito, oppure un gesto inopportuno o un atteggiamento qualunque da cui abbiamo concluso che l'altro non aveva capito niente di noi, e se l'aveva capito non era disposto ad accettarlo.

Come ci siamo sentiti in quella circostanza?  Come ci sentiamo ora a ripensarci?

Può darsi che ci venga in mente un’esperienza drammatica, che ci fece soffrire allora e ci fa soffrire ancora oggi.
Può darsi che ci venga in mente un’esperienza sgradevole, che ci fece un po' soffrire, sì, ma non tanto da lasciare segni gravi.
E può darsi perfino che ci venga in mente un’esperienza che oggi ci sembra buffa o tenera, e di cui magari possiamo addirittura sorridere (anche se non è detto che ci fece ridere pure allora).
Diciamo che molto dipende da cosa c’era in gioco allora, da cosa c'è in gioco ancora oggi, e cose così. 
A dirla tutta, qui potremmo aprire un capitolo infinito. Ma tranquilli. Non ho nessuna intenzione di farlo. Piuttosto vi proporrò una scenetta . 

Immaginate una giovane visibilmente turbata che sta piangendo tutta sola in un parco pubblico, seduta sopra una panchina.
A un certo punto qualcuno le si avvicina e le porge un ciuccio.

Che effetto le potrà fare secondo voi una simile offerta?
Come si sentirà? Come reagirà?
Espongo tre possibilità che mi vengono in mente di getto, anche se potrebbero essercene molte altre immagino, ma tre possono bastare.

  • Ipotesi 1) La ragazza si mostra seccata ma non particolarmente ferita; fa semplicemente segno di no con la mano e allontana la persona
  • Ipotesi 2) La ragazza sorride e si commuove, gli occhi le si riempiono di lacrime; non sa se ridere o piangere; abbraccia e bacia chi le ha offerto il ciuccio, stringendoselo al cuore
  • Ipotesi 3) La ragazza va su tutte le furie, si alza, si mette a strillare e tira il ciuccio appresso a chi glielo ha dato

Si tratta sempre della stessa ragazza in tutte e tre le ipotesi? Sì. 
È una ragazza sana di mente? Sì.
Ciò che cambia nei tre casi è semplicemente la variabile "sentirsi visti" e l'importanza che ha per la ragazza la sua relazione con chi dimostra di "vederla" o "non vederla".
Ecco infatti le tre diverse spiegazioni.

  • Ipotesi 1) La persona che le si è avvicinata è un venditore ambulante che cerca di venderle di tutto, persino un ciuccio. Ha mostrando davvero poca delicatezza verso una signorina in lacrime, ma a lei non importa più di tanto; chi lo conosce, quello. E poi magari sta pieno di problemi pure lui, non ce l'aveva specificamente con lei...
  • Ipotesi 2)  La persona che le si è avvicinata è il bimbetto di cui lei è la baby-sitter; l’ha vista piangere, così le è montato addosso e ha cercato di consolarla a modo suo, offrendole il suo ciuccio. La ragazza si è sentita vista nel suo dolore, sapendo bene che il funzionamento mentale del bambino non gli consentiva di comprendere che un ciuccio non è un oggetto adeguato per una signorina che piange. Ma il bambino le ha fatto comunque un dono gradito: il suo gesto, la sua intenzione di curarla. E lei si è sentita meno sola.
  • Ipotesi 3) La persona che le si è avvicinata è l’uomo che ama e con cui ha qualche problema. Magari pensava di essere spiritoso portandole un ciuccio; forse si aspettava di farla ridere. Evidentemente non ci ha visto giusto. Lei non ha sentito vicinanza umana, non si è sentita accolta né compresa, ma piuttosto derisa e umiliata (il sarcasmo è una forma di svalutazione  del dolore di una persona e non dà mai conforto, neanche quando porta la persona a ridere).

Qualcuno potrebbe obiettare che la risposta 3) è proprio inverosimile o esagerata, e che nessun uomo può essere tanto idiota da comportarsi in un modo simile. Ok. Obiezione accolta (benché non possa giurare di essere proprio d'accordo al cento per cento). 
Proviamo allora a cambiare regalo per l'ipotesi 3.
Torniamo alla ragazza che piange da sola su una panchina al parco. 
Arriva un uomo e le porge un bel pacchettino della gioielleria. 
Può mai essere che la ragazza, nel suo cuore, non percepisca la differenza tra ricevere quel bellissimo  pacchettino e ricevere un ciuccio?
Diciamo pure che ognuno è fatto a modo suo.
Per quello che qui interessa, possiamo dire che è certamente possibile che anche un dono molto prezioso possa giungerci sgradito se lo interpretiamo come prova del fatto che una persona a cui teniamo in realtà... "non ci vede".
E infatti ecco qua.

  • Ipotesi 3 bis) La ragazza apre il pacchetto e ci trova dentro un paio di bellissimi orecchini scintillanti. A lui luccicano gli occhi, ricordando quanto gli sono costati. Ma lei va lo stesso su tutte le furie, si mette a strillare e gli tira gli orecchini appresso
  • Spiegazione (una delle tante possibili). Lui è spostato con un’altra e non si decide a lasciare la moglie. La ragazza è stufa del ruolo di amante e recentemente lo ha messo di fronte a un aut aut: o lascia la moglie o tra loro è finita. Nel tempo della loro relazione lui le ha regalato molte belle cose (orecchini, braccialetti, borse, orologi) ma mai un anello, simbolo tradizionale del legame e della serietà di un impegno sentimentale. Così, con l’arrivo dell’ennesimo paio di orecchini, la ragazza si è sentita ancora una volta trattata come “l’altra”; come se il suo dolore e il suo aut aut non fossero stati considerati cose serie (o comunque mai così serie da non potersi risolvere con un paio di orecchini...)

***

***
Ti potrebbero interessare anche:

lunedì 18 aprile 2016

Come vogliamo (e come non vogliamo!) essere trattati quando soffriamo. I risultati del nostro sondaggio

"Mi aiuta la presenza di persone sensibili 
che comprendano e condividano il mio dolore...
standomi vicino senza commentare o consigliare...!"
Con queste parole si è espressa su Facebook una lettrice a proposito del nostro sondaggio online su ciò che desideriamo e ciò che non desideriamo da chi ci circonda,  nei momenti di dolore, difficoltà, stress. 
Il suo commento è una perfetta sintesi dei risultati del nostro sondaggio.
La maggioranza dei partecipanti infatti dichiara di sentirsi confortata da un abbraccio affettuoso,  da un ascolto attento, dalla vicinanza fisica ed emotiva di chi le sta accanto. I risultati lasciano intendere che il conforto viene dal sentire che non siamo soli, che c'è qualcuno che riconosce, comprende e accetta la nostra sofferenza. Qualcuno che ci accoglie senza giudicarci, che ci fa sentire a nostro agio e ci permette di condividere le nostre emozioni autentiche senza doverle mascherare. Qualcuno insomma su cui possiamo contare, che ci dedica tempo, ci vuole bene, si mette a disposizione e ci tratta con dolcezza.
E non c'è bisogno di grandi poesie o tante parole (anzi...), ma piuttosto di presenza, umanità, empatia.
Ciò che invece davvero non vogliamo, dicono i nostri risultati, sono le reazioni apertamente offensive (perché denotano svalutazione, biasimo, insofferenza, atteggiamenti di superiorità ecc.), oppure quelle fatte di indifferenza, distanza o vuota forma. Ma non solo. Non vogliamo nemmeno la commiserazione, l'invadenza, o il fatto che le persone mettano il loro sentire in primo piano rispetto al nostro (la loro preoccupazione, la loro impazienza, le loro esperienze). E poi non vogliamo neanche consigli non richiesti, soluzioni preconfezionate o l'invito a guardare le cose da una prospettiva migliore.
Riguardo a questi ultimi atteggiamenti, peraltro, qualcuno potrebbe stupirsi che non risultino graditi. A volte infatti potrebbero essere utili.
Il problema magari in questi casi è che certe risposte ci risultano gradite solo se arrivano al momento giusto e  se sono precedute comunque da dimostrazioni di sincero interesse e di empatia.
Ma ecco in dettaglio i risultati del  sondaggio.


***
***
E noi, che atteggiamento riserviamo a noi stessi nei momenti di dolore, difficoltà, stress?
Abbiamo nei confronti di noi stessi lo stesso atteggiamento affettuoso, comprensivo e incoraggiante che vorremmo dagli altri? 
Ci riserviamo trattamenti  del tipo domanda 1 o del tipo domanda 2?
Ricordiamoci che, se impariamo a trattare noi stessi come vorremmo che ci trattassero gli altri, avremo sempre un amico prezioso a portata di mano nei momenti difficili, cioè noi stessi.
Ma se ci riserviamo dei trattamenti del tipo domanda 2 (e ci diciamo per esempio: "Te la sei cercata"; "Te l'avevo detto che sarebbe finita così"; "Non ti sopporto quando stai male...", eccetera - basta controllare l'elenco), in ogni momento difficile della nostra vita dovremo fare i conti con una doppia sofferenza: non solo quella del momento in sé ma anche quella aggiuntiva provocata dai  nostri stessi atteggiamenti e pensieri.
Se così fosse, accorgersene è già un primo passo. Il passo successivo può essere decidere di cambiare qualcosa nel rapporto che intratteniamo con noi stessi. E, se occorre, prendere in considerazione  la possibilità di un po' di aiuto psicologico.

***

venerdì 18 marzo 2016

Riconoscere le relazioni invischianti per riaffermare i nostri sani confini


Nei nostri rapporti interpersonali,  possiamo sperimentare i nostri confini come una specie di steccato invisibile che definisce e separa ciascuno di noi dalle altre persone, consentendoci di entrare in relazione con loro senza perdere o tradire la nostra individualità.
Immaginiamo che tra il nostro giardino e quello del vicino ci sia una staccionata che separa le due proprietà. 
Cosa avverrebbe se il vicino un bel giorno abbattesse di forza la staccionata e cominciasse a scorrazzare nel nostro terreno, decidendo cosa va fatto e cosa non va fatto nella nostra proprietà?
Probabilmente, se abbiamo un sistema d'allarme funzionante, una sirena suonerebbe a tutta forza per avvertirci dell'invasione. E non avremmo dubbi sul perché suoni: è stato violato un confine e l'allarme ci segnala il problema.
Qualcosa del genere può accadere anche nelle nostre relazioni, dove il malessere che proviamo quando i nostri confini vengono violati assomiglia a un sistema d'allarme che ci avvisa del problema, perché possiamo  porvi rimedio.
Purtroppo nel mondo relazionale le cose non sono sempre così chiare e lineari, perché ci sono molti modi di violare un confine non sempre eclatanti e appariscenti. 
Quando in una relazione sperimentiamo situazioni di invischiamento, viviamo come un'inappropriata fusione di identità, dove non è chiaro dove inizio e finisco io e dove inizia e finisce l'altro.
Il processo in atto può essere sottile e disorientante, oltre che difficile da riconoscere, anche perché spesso si accompagna a una certa dose di manipolazione.
Tua madre ti corregge riguardo al modo in cui ti relazioni con i tuoi figli, e lo fa davanti a loro; il tuo coniuge ti suggerisce cosa pensare; il tuo miglior amico ti dice con chi dovresti uscire; una tua collega ti prega di darle una mano con il lavoro, ma in realtà ti sta chiedendo di farlo tu al posto suo; il tuo capo ti telefona a casa, chiedendoti di occuparti di una cosa di cui si è dimenticato. 
In tutti questi esempi, se non siamo capaci di difendere i nostri confini, potremmo accettare la situazione e dare il nostro consenso riguardo a qualcosa, pur sentendoci mentalmente ed emotivamente in conflitto con questo consenso, ed assumerci delle responsabilità per cose che in realtà non eravamo d'accordo a fare o, a pensarci meglio, non avremmo proprio voluto fare.
Non sempre è facile riuscire a districarsi in situazioni del genere ed i motivi possono essere vari.
Tanto per cominciare, potremmo non riuscire a vedere con chiarezza la situazione e quindi avvertire un  disagio (c'è un allarme che suona) ma non comprenderne la causa. 
In secondo luogo potremmo avere difficoltà ad accettare proprio il nostro disagio ed i sentimenti difficili che questo comporta, come risentimento, rabbia e ostilità verso le persone che amiamo o che comunque sono importanti per noi. Inoltre potremmo vivere il fatto stesso di provare questo disagio come un fallimento personale rispetto alla nostra aspirazione ad essere persone amabili, generose, altruiste, spirituali, insomma "buone".
Se ci troviamo in situazioni del genere, ricordiamoci che non è salutare aspirare ad essere "buoni" e compiacenti con gli altri dimenticandoci di essere  "buoni" innanzitutto con noi stessi.
Per preservare la nostra integrità ed il nostro equilibrio psicofisico, dobbiamo smettere di lottare contro ciò che sentiamo e darci la possibilità di stare con il nostro sentire, accettandolo incondizionatamente così com'è, senza negarlo, rifiutarlo o cercare di sbarazzarcene al più presto con comportamenti reattivi.
Se riusciamo ad ascoltare senza giudizi né censure tutto ciò che il nostro disagio vuole dirci, potremmo trarre da esso utilissime informazioni sulla cui base operare scelte consapevoli che possono migliorare la nostra vita e le nostre relazioni.
Se il nostro problema è un problema di invischiamento, il nostro disagio -  il nostro allarme che suona - deve essere ascoltato e non messo a tacere, perché è proprio da qui che cominceremo a muoverci in un percorso teso a riaffermare i nostri sani confini con sicuri vantaggi sia per noi stessi sia per i nostri rapporti... di buon vicinato.
***
Ed ora un esercizio che può aiutarci a determinare quale può essere un confine sano, che vogliamo ristabilire per noi stessi, partendo dalla consapevolezza delle sensazioni del corpo.
***
Prendiamoci una pausa, un po' di tempo per noi stessi,  in un luogo riservato e tranquillo dove nessuno ci disturbi, ed entriamo in contatto come meglio ci riesce con le nostre percezioni corporee, restando in ascolto delle sensazioni che emergono, mentre ci poniamo le seguenti domande:
1) Quando penso di fare la tale cosa..... (ognuno di noi completa la frase secondo il suo caso) questo mi procura un senso di disagio nel corpo o delle sensazioni sgradevoli?
2) Quando penso di non fare o non permettere la tale cosa ..... (ognuno di noi completa la frase secondo il suo caso), quali sensazioni si generano nel mio corpo?
3) Ho per caso difficoltà a definire i miei confini perché la mia preoccupazione principale è di proteggere, non ferire o non offendere altre persone?
4) Quando onoro il modo in cui mi sento e ipotizzo un cambiamento, che sia rispettoso dei miei confini, come mi sento nel corpo? 
***
Ponete le domande ed apritevi all'ascolto delle sensazioni del corpo, ma non abbiate fretta di trovare subito le risposte. La fretta infatti potrebbe portarvi a liquidare la questione con veloci "risposte di testa", impedendovi di andare più in profondità. Se ciò dovesse avvenire, riconoscete semplicemente che c'è la fretta, osservate come si manifesta nel corpo e cosa vi spingerebbe a fare (es.liquidare la cosa in modo spiccio, per non ascoltare il disagio), siate compassionevoli e gentili con voi stessi per ciò che state provando, e continuare a stare con tutte le sensazioni che emergono dal corpo mentre ponete le domande.
A volte le risposte arrivano forti e chiare... ma non quando decidiamo noi.
***

Vai al Sommario

Potrebbe interessarti anche sul canale YouTube: Pratica con le emozioni difficili








mercoledì 6 maggio 2015

Su quali valori si basa la nostra autostima e su quali quella altrui


Quanto è sicura la nostra autostima?
Su cosa si basa?
Da cosa è scossa?
Come si ristabilisce quando è ferita?
Quanto sono realistiche le aspirazioni su cui si basa?

Conoscere la risposta a queste domande può aiutarci a capire meglio quali situazioni, scelte e comportamenti, nella vita, ci portano a stare bene con noi stessi e quali a stare male. 

Le condizioni che sostengono il nostro rispetto di noi stessi hanno un ruolo importantissimo nella nostra vita, e la cosa che può stupire è che non sono uguali a quelle degli altri. 

Poiché l'autostima è un fenomeno squisitamente interiore, non sempre riusciamo infatti ad immaginare su cosa possa basarsi quella altrui, e così alcuni comportamenti che hanno a che fare con essa possono risultarci incomprensibili nelle altre persone.
Quando qualcuno scopre di aver agito in contraddizione con i propri valori morali, può provare un tale senso di vergogna e di disperazione che, pur di non provare una simile angoscia, può fare cose inimmaginabili per chi guarda dall'esterno, perfino mettere a rischio se stesso e altre persone.
A volte gli studenti di psicologia, leggendo gli scritti di Freud, restano stupiti dal fatto che il padre della psicoanalisi abbia fatto breccia nelle proprie resistenze per poi rivelare pubblicamente i fatti intimi della propria vita inconscia. Questo comportamento tuttavia non stupisce se letto alla luce di un'attenta valutazione della struttura dell'autostima di Freud. Per il suo sistema di valori, infatti - come osserva Nancy McWilliams, nel suo libro Il caso clinico - era centrale "mantenere un'immagine di sé come impavido ricercatore devoto alla verità, conquistatore in lotta con l'ipocrisia e l'autoinganno. Freud traeva un grande piacere dallo scoprire in se stesso quelli che agli altri sarebbero sembrati aspetti assai sgradevoli della propria psicologia. Per quanta vergogna gli potesse costare quello che andava scoprendo, il prezzo pagato era ampiamente controbilanciato dall'orgoglio che provava nel rafforzare la sua immagine di sé come scienziato impavido alla ricerca della verità".
I valori condivisi culturalmente qualificano spesso come ordinari comportamenti che altrimenti risulterebbero incomprensibili. 
Una persona la cui autostima dipende dall'avere un aspetto giovanile, può darsi che si sottoponga ad un intervento chirurgico per camuffare i segni del tempo, cosa che non appare tanto incomprensibile oggigiorno. Anche se il suo valore magari non ci appartiene e critichiamo il suo comportamento, tuttavia riusciamo a capirlo e a spiegarcelo, meglio di quanto avverrebbe con analoghi valori e comportamenti tipici di altre epoche storiche o diffusi presso altre culture (come la fasciatura dei piedi delle donne cinesi di un tempo, gli anelli per allungare il collo delle donne birmane, i corsetti strettissimi che toglievano il fiato alle nostre dame di qualche secolo fa).
A volte possiamo non comprendere cosa spinga una persona ad andare incontro alla morte, per questioni di autostima; eppure la storia è piena di eroi di guerra, il cui orgoglio si fonda sull'essere coraggiosi, e a cui la morte eroica sembra preferibile alla vergogna di sopravvivere da vigliacchi. 
La difficoltà di comprendere le persone la cui autostima si fonda su basi diverse dalle nostre diventa ancora maggiore quando assistiamo ad atti violenti e distruttivi, anziché ad atti eroici.
"Una persona la cui autostima si basa sull'apparire indipendente e invulnerabile", dice ancora Nancy McWilliams, "può picchiare sua moglie pur di non esprimere il proprio bisogno di lei; una persona il cui orgoglio dipende dal sentire di avere un potere assoluto sugli altri può preferire l'omicidio alla vergogna associata all'impotenza." 
Comportamenti simili possono risultare ovviamente incomprensibili a persone la cui autostima è organizzata diversamente.
Noi possiamo dare un po' per scontato che le cose che alimentano il nostro personale orgoglio sostengano anche l'autostima altrui, perché tendiamo a proiettare. 
Questo può essere fonte di malintesi e anche di inspiegabili difficoltà relazionali. 
Sempre la McWilliams racconta, a tal proposito, di una sua paziente che aveva passato un'intera seduta ad esprimere confusione e dolore perché un uomo che stava frequentando aveva con lei un comportamento sessuale "ristretto". Era giunta così alla conclusione che lui non la trovasse attraente, benché per altri versi il comportamento dell'uomo suggerisse la conclusione esattamente opposta. Poiché la paziente, in altre occasioni, le aveva detto che il suo amato era cattolico ed andava a messa regolarmente, la McWilliams ha commentato: «Forse lui sente, in accordo con la sua educazione religiosa, che il sesso pre-matrimoniale è sbagliato». La paziente ha esclamato: «Di certo nessuno in questi giorni e di questi tempi può pensarla così!» "Ma così era.", dice la Mc Williams, "E l'autostima di quell'uomo dipendeva da un comportamento conforme a questo dettame. Lui era attratto da lei, ma non sarebbe riuscito a stare bene con se stesso se avesse avuto delle relazioni sessuali con lei prima del matrimonio".
Insomma, come dobbiamo fare per capire che cosa sostiene l'autostima di qualcuno?
Cosa dobbiamo chiedergli?
Una domanda utile forse può essere: «Cosa ammiri nelle persone?». La risposta infatti può rivelarci quali sono gli ingredienti principali su cui il nostro interlocutore basa la valutazione di se stesso.
Ciò che ammiriamo negli altri è di solito qualcosa che ha un valore anche per noi. Mentre ammiriamo una persona, vediamo incarnate in lei delle qualità che probabilmente ci appartengono, quanto meno a livello di valore, e che ci piacerebbe poter portare alla luce e vedere sviluppate anche in noi stessi.
Se la confidenza è tale da non rischiare di risultare indiscreti (e sempre sperando di ottenere risposte sincere...), possiamo azzardare anche qualche domanda più specifica, come: «Quali sono le cose che ti fanno sentire soddisfatto - e quali insoddisfatto - di te stesso?»
Conoscere queste risposte può essere utile non solo per interpretare meglio il senso dei comportamenti dell'altro, ma anche per evitare di ferirlo involontariamente con le nostre parole e i nostri atteggiamenti. Infatti, se siamo portatori di valori diversi dai suoi, potremmo inavvertitamente mancare di tatto e mettere il dito in qualche sua piaga che non vediamo.
Questo non significa necessariamente che certe cose non possono essere dette. Quanto più un rapporto diventa importante, infatti, tanto più è auspicabile che sia autentico e sincero. Ma è importante anche avere tatto quando ci si avvicina ad argomenti che per l'altro sono delicati.
Il tatto, anche in senso metaforico, è soprattutto una questione di mano. Significa comprendere quando non è il caso di andare giù duro con mano pesante, ma occorre usare un tocco leggero e gentile. 
Quando i valori che sostengono l'autostima altrui sono molto lontani dai nostri, questo tocco leggero può non venirci d'istinto, e si giova piuttosto di una decisione consapevole.
Proviamo allora a richiamare alla mente gli aspetti di noi stessi e della nostra vita di cui siamo insoddisfatti, perché non sono all'altezza dei nostri valori importanti.
Come ci sentiamo quando qualcuno li tratta senza delicatezza? 
Se ci ricordiamo quanto male fa a noi, forse ci verrà più facile il tocco leggero nello sfioramento della vulnerabile autostima altrui.