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venerdì 20 dicembre 2024

Mindfulness per bambini. Una fiaba per comprendere come funziona il body scan. Première domenica il 22 dicembre alle 12.00 su YouTube

Appuntamento il 22 dicembre alle 12:00 su YouTube per la première del video "La castellana". 

Una fiaba per raccontare a grandi e piccoli come funziona il body scan.

Trovi il video al link: https://youtu.be/wT83f8DSBjM



🌟 Ho scritto la fiaba della castellana ispirandomi ad un’antica storia tramandata oralmente nella mia famiglia di madre in figlia. Narra di una donna che, su consiglio di una maga, fa ogni giorno il giro del suo castello con una candela accesa. 🌟 La sua trama può facilitare la comprensione della pratica del body scan, in quanto metafora di ciò che facciamo quando portiamo la luce della coscienza in giro per il nostro corpo. 🌟 Destinata inizialmente a un pubblico adulto, la fiaba fu pubblicata per la prima volta su questo blog nel 2017 e si può leggere tuttora qui 🌟 Successivamente essa è stata inserita come lettura consigliata in un protocollo di mindfulness per bambini, frutto di un progetto clinico di ricerca nato dalla collaborazione tra l'Università di Pisa e IRCCS - Fondazione Stella Maris. 🌟 Nel commento al protocollo di mindfulness per bambini (destinato principalmente agli psicologi che si occupano di bambini con disturbi del comportamento e loro genitori), arrivati alla fiaba, c'è la seguente raccomandazione: "È molto importante che l'insegnante legga con enfasi e partecipazione e trasmetta entusiasmo". 🌟 Così mi sono cimentata nel leggere io stessa la fiaba della castellana secondo le indicazioni fornite dal protocollo e il risultato è quello che vi presento in questo video 🌟 Forse i miei ascoltatori abituali si stupiranno di questo risultato, e potrebbero anche non apprezzare tanta "enfasi e partecipazione" da parte della mia voce, ma ricordiamoci che questo video è destinato soprattutto ai bambini e l'intenzione della voce è di riuscire a raggiungere il loro interesse e la loro immaginazione nonostante il linguaggio, non sempre adatto a loro, usato nella narrazione. 🌟 I colleghi interessati al protocollo, possono reperirlo nel libro (peraltro con prefazione del Dalai Lama) dal titolo "Mindfulness per i disturbi del comportamento. Modelli di intervento e attività per bambini e genitori", a cura di Pietro Muratori, Rebecca Ciacchini, Ciro Conversano e Silvia Villani, edito da Erickson nel 2022 - A causa delle restrizioni di YouTube per i contenuti destinati ai bambini, alcune funzionalità sul video sono disattivate. - Per esempio non ci sarà la chat in diretta durante la première e nemmeno la possibilità di lasciare commenti sotto il video (sono possibili forse solo i “mi piace”). 🤩 In realtà a me più di tutto importerebbe sapere se la fiaba è piaciuta o non è piaciuta ai vostri bambini e in genere come l’hanno vissuta. 💌Mancando la possibilità di lasciare commenti sotto il video, ricevo in sostituzione volentieri messaggi in privato all'indirizzo psicologa.altiero@gmail.com

*** 🌟 Potete trovare altri due video per bambini sul mio canale YouTube a questi link:

- Body scan con la stellina:
- Gentilezza amorevole con la stellina: https://youtu.be/TAM0lzqwSbs ***


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lunedì 30 luglio 2018

Un racconto e due esercizi. Traccia audio: body scan e perdono

Ieri mattina, un rumore forte proveniente dalla strada mi ha portata ad un brusco risveglio. Mi sono sentita come catapultata di forza nel mio corpo dall'altrove tranquillo dove me ne stavo. Una specie di resurrezione improvvisa, d'urgenza, che mi ha fatto venire in mente una certa storia, che ora vi racconto.
C'era una volta una brava donna che si trovò a morire sul colpo in un incidente stradale. Non lasciava troppi guai dietro di sé, per cui avrebbe potuto andarsene da questa Terra senza tante storie. Ma lei diceva, non chiedetemi a Chi, che se avesse saputo che quello era il suo ultimo giorno di vita, certo non l'avrebbe sprecato come aveva fatto. Avrebbe guardato il mondo e le persone care in un modo diverso, avrebbe detto ciò che meritava davvero di essere detto,  si sarebbe astenuta dal parlare a vanvera, avrebbe  espresso gratitudine per i doni, avrebbe perdonato i torti. E poi chissà che altro. Sarebbe stata  più attenta, insomma.
Le fu risposto che una vita terrena è fatta così: comincia, dura per un po' e poi finisce. E' inutile guardarsi  indietro e dirsi che si poteva fare meglio: nessuno è perfetto, qualche errore è da mettersi in conto. Che si desse pace, era assolta.
Ma la signora non si dava pace e questo suo rimpianto non le consentiva di andarsene per davvero, perché la teneva come attaccata alla vecchia vita, che però intanto era finita.
Certo la situazione era complicata, ma alla fine si trovò una soluzione. Alla signora fu concesso di tornare sulla Terra e rivivere un giorno solo della sua vecchia vita. Ma non l'ultimo giorno, che ormai era andato così e così restava, e nemmeno un altro giorno straordinario, tipo quello del matrimonio, del parto, della laurea. No. Le veniva offerto un giorno normalissimo,  di quelli che non fanno storia, di quelli che di solito in una vita si dimenticano perché, per quanto ne sappiamo, non era successo proprio niente, quel giorno. E una raccomandazione importante: doveva restare un giorno normale. Quindi niente scene madri della serie udite, udite, sono tornata dagli Inferi, ma al contrario moderazione,  discrezione, disinvoltura. 
Fu così che da un momento all'altro la donna si ritrovò catapultata nel suo corpo e nel suo letto, in una mattina di chissà che anno, con il sole che filtrava attraverso le tende, il profumo del caffè nell'aria, il rumore dell'acqua della doccia che proveniva dal bagno del marito, le voci dei figli che stavano discutendo tra loro prima di andare a scuola, e il suo cellulare che stava ripetendo il suono della  sveglia per la terza volta. Era viva. Tutto le sembrò perfetto in quel momento: il rumore  dell'ascensore che saliva e scendeva,  il liscio delle lenzuola sotto le gambe, il profumo della sua crema da notte ancora sul cuscino. Tutti segni di vita preziosa. Certo, non aveva sentito la sveglia (era nell'Aldilà fino a un momento prima...). Certo, sarebbe arrivata tardi in ufficio, quella mattina, e nessuno in famiglia si era preso la briga di vedere come mai non fosse ancora in circolazione. Quando era viva probabilmente si sarebbe arrabbiata per una cosa così, e avrebbe cominciato a dire che lei pensava a tutti e invece gli altri...  Ora invece era profondamente commossa. Era viva. E la sua famiglia era viva ed era lì. E stavano tutti bene. Abbastanza bene da preparare il caffè, da farsi la doccia, da discutere prima di andare a scuola. Tutto era perfetto, davvero.  Entrò in cucina raggiante, così raggiante che i figli restarono perplessi, smisero di discutere, e chiesero: "Tutto bene, mamma?". Lei disse: "Sì, tutto bene. Tutto perfetto, amori miei" e li strinse forte a sé con gli occhi che cominciavano a inondarsi di lacrime. Loro dovettero accorgersi che era commossa e chissà cosa capirono. Fatto sta che mentre si scioglievano dall'abbraccio il figlio grande disse: "Scusa, ma'. Ci siamo messi a discutere tra noi e manco siamo venuti a vedere se eri viva o morta". Lei disse: "Eh..." e si versò il caffè, apprezzandone il calore e l'aroma. Apprezzando il semplice fatto di aver trovato lì un caffè, già bell'e pronto, ad accogliere la sua resurrezione. Sorrise e cominciò a sorseggiarlo, attenta a ogni dettaglio del gusto familiare e gradevole. Sentire il sapore del caffè. Sentirne l'odore. Sentirne il calore. Che esperienza...
"Per fortuna che sei ancora viva, ma'...", disse il figlio piccolo dandole un bacio con lo zaino già in spalla, pronto a uscire. "Solo che mo' ci tocca correre a scuola, perché se facciamo tardi non abbiamo la scusa del funerale della mamma...". Le lanciò un suo tipico sguardo sfottitore, di quelli che a volte si chiamavano una risata, altre  volte un'imprecazione, altre volte le due cose insieme. Questa volta si chiamò un bacio in più e una spettinata di capelli dalla mano della mamma. Quanta vita in quello sguardo sfottitore, nel poterlo cogliere, nel potersi scambiare amore da occhi a occhi, qualunque cosa dicessero le parole. Quanta vita in quel momento ordinario, in cui la donna poteva persino ridere della propria morte che apparentemente non c'era, della vita così com'era e della segreta simultaneità di vita e morte, in cui ora dimorava, dove la realtà della morte dava più gusto alla vita, come uno sfondo scuro che dà risalto a tutti i colori, anche i più tenui.
C'era un'intera giornata davanti, e la donna se la sarebbe goduta pienamente momento per momento. Non era la semplice ripetizione di un giorno già vissuto, ma la degna celebrazione di tutta la sua vita. Un'occasione per guardare le cose in un modo nuovo, accogliendole così com'erano, apprezzandole per come erano, sorridendo alla vita in tutte le sue manifestazioni, accettandone anche le scomodità, le imperfezioni e le sgradevolezze. "Assoluzione generale", disse tra sé e sé la donna. Era così felice di essere viva oggi, in questo giorno dimenticato della sua esistenza, che le veniva semplice perdonare e benedire tutto e tutti, e perdonare una buona volta anche sé stessa - così com'era stata nella sua vita già conclusa - con i suoi umani  limiti, errori, difficoltà.
Perdonò tutti. Si perdonò tutto. Provò gioia. Provò gratitudine. Trovò senso.E in serata se ne tornò in pace da dov'era venuta.

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Ed ora vi propongo due esercizi.
Il primo è  una specie di gioco.
Oggi fate conto di essere tornati alla vita per un giorno, proprio come la donna di cui abbiamo parlato, e regolatevi di conseguenza per tutta la giornata.
Per ricordarvene, ogni tanto potete fermarvi un momento, fare un bel respiro e chiedervi: "Se ora sapessi che sono in visita qua per un giorno solo, venendo dall'Aldilà, come la vivrei questa esperienza?"
Provate a vivere varie esperienze, soprattutto le più usuali e banali, da questa nuova prospettiva e osservate se cambia qualcosa nel modo in cui vi relazionate alle persone, alle cose, alle situazioni.
Se non vi piace l'idea dell'Aldilà, immaginatevi come una persona che sia emigrata in America da trent'anni e che ora, tornando per un giorno solo a casa,  goda in pieno di tutto ciò che trova, bello o brutto che sia: l'odore delle piante selvatiche ai bordi del marciapiede (quell'odore che, aspetta, com'era? strappiamo una foglia e sentiamolo ancora...); la portinaia che brontola ad alta voce giù al palazzo (proprio quella che brontola da sempre; e lo fa anche oggi! Che mito... ascoltiamola attentamente, guardiamola bene), la parlata locale che si coglie passando in mezzo alla folla (com'è fatta questa musica? quante musiche diverse riusciamo a distinguere?).
Insomma provare, scoprire.
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Il secondo esercizio è una variante del body scan, quindi si fa da sdraiati, a occhi chiusi, con una traccia audio che dura mezz'ora.
È collegato al racconto che avete appena letto da una domanda, che è questa:
  • secondo voi la donna, quando si è resa conto di essere di nuovo nel suo vecchio corpo, che atteggiamento avrà assunto nei confronti  della sua cellulite, del suo alluce valgo, dei suoi peli di troppo, del suo dolore alla spalla, della sua pancia gonfia e della sua gastrite? Lo stesso atteggiamento di sempre o un atteggiamento un po' più accogliente e gentile del solito, dettato dalla semplice gioia di avere di nuovo un corpo, piuttosto che non averlo, e quindi di essere viva, piuttosto che non esserlo?
La risposta è nel racconto stesso. "Assoluzione generale", aveva detto infatti la donna, includendo certamente - visto che non l'aveva escluso - anche il suo corpo, completo di cellulite, alluce valgo, e ogni altra  caratteristica.
In questo spirito, la pratica di oggi  mette un'enfasi esplicita sull'assoluzione generale dei disagi presenti nel corpo, e quindi sull'atteggiamento accogliente, accettante, affettuoso, compassionevole con cui è utile relazionarci al nostro corpo e a noi stessi mentre pratichiamo. Ponendo l'attenzione sulle sensazioni fisiche,  lasceremo andare intenzionalmente ogni eventuale giudizio o critica  della mente relativamente al corpo (che per alcuni aspetti magari non ci piace, o non funziona bene come vorremmo, o ci reca dolore o altri tipi di disagio) e relativamente a noi stessi (caso mai ci accorgessimo che tendiamo a rimproverarci, per ciò che non funziona nella  nostra vita o anche nel nostro corpo, aggiungendo così  altra sofferenza al disagio che già incontriamo).
L'invito, durante la pratica, è di lasciar andare le critiche, i giudizi e ogni altra forma di lotta della mente contro le cose così come sono (il corpo così com'è, noi stessi così come siamo) e perdonare, perdonarci, prendendoci cura di noi stessi,  gentilmente, pazientemente, compassionevolmente.
Buona pratica!


Maria Michela Altiero psicologa e mindfulness trainer



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Mindfulness: pratiche per assaporare la ricchezza del momento presente, per risvegliarsi alla vita, per instaurare una relazione diversa, più saggia, più gentile, più accogliente, con noi stessi, con gli altri, con le cose così come sono. Per il calendario dei prossimi eventi in programma, clicca qui



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domenica 3 settembre 2017

La castellana. Una fiaba per presentare il programma per la riduzione dello stress e le pratiche di mindfulness

Nell'immagine "Donna con candela" di Murad Sayen 


Una volta, alla presentazione di un Protocollo Mindfulness-Based, mi è tornata in mente un'antica fiaba tramandata oralmente nella mia famiglia di madre in figlia.

Ero certa che ad ogni passaggio generazionale alcuni dettagli erano stati aggiunti, tolti o modificati secondo lo stile e i gusti della narratrice di turno e questo mi fece sentire autorizzata a raccontarla a mia volta a modo mio.

Qual era il modo mio?  Inutile negarlo. La castellana con la sua candela mi ricordava tanto l'esperienza delle pratiche formali di mindfulness ed in particolare del body-scan: un giro circolare della luce della coscienza in tutti gli anfratti del corpo, mentre vari spiritelli soffiano sulla fiamma per sabotare l'impresa (come i pensieri, per esempio, o il torpore o stimoli vari  sia interni sia esterni che tendono a catturare la nostra attenzione).

Ci sarebbe tanto altro da dire, in verità. Ma per oggi basta così. Andiamo alla fiaba.

Possano la fiducia e la costanza nella pratica risanare i nostri castelli e le nostre vite.




C'era una volta, in un paese lontano, una castellana alle prese con tutti i problemi del suo castello.

L'amministratore negli ultimi tempi continuava a ripeterle:
"Il castello sta andando in rovina, il castello sta andando in rovina", così la castellana si decise una buona volta a guardare i conti.
Ma non ci capì niente. Per lei erano soltanto un arido elenco di parole e di numeri.

"Tutto questo significa che il castello sta andando in rovina?", chiese.
"Sì...", disse l'amministratore.
"E cos'è esattamente questa rovina?"
L'amministratore sembrò spazientirsi: 
"Allora non si fida di me? Deve ritrovarsi sotto le macerie per capire a che punto siamo?"
Si asciugò la fronte con un fazzoletto, salutò sbrigativamente la castellana e andò via borbottando.

Disorientata e preoccupata, la castellana decise di rivolgersi a una maga e le chiese:
"Cosa devo fare per impedire che il castello vada in rovina?"
La maga consegnò alla castellana un grosso pacco pieno di candele e le disse:
"Ogni giorno accendi una di queste candele e fa' il giro dell'intero castello con la candela accesa. Non ti fermare fino a che la candela non sarà completamente consumata."
"Oh, no!", disse la castellana. "Lo sai che il castello ha zone buie, anfratti inaccessibili e porte sprangate da anni..."

"Lo so. Lo so. Se è per questo ci sono pure gli spiriti..." 
"Allora lo vedi che questo giro è pericoloso..."
"Non è pericoloso, solo non è così semplice. Gli spiriti più che altro si divertono a fare scherzi e tu devi metterli semplicemente in conto. Per esempio soffiano sulla fiamma della candela e la spengono. Questo è proprio tipico. Quando ti accorgerai che la candela si è spenta, tu semplicemente la riaccenderai e riprenderai il tuo giro del castello. E così anche cento, duecento, trecento volte. Senza avvilirti, ma con pazienza e fiducia in ciò che stai facendo." 

"Ma dove lo prendo il fuoco per riaccendere ogni volta la candela?", disse la castellana un po' smarrita.
"Lo prenderai da qui", rispose la maga mettendole in mano un medaglione magico. E le spiegò: "Questo medaglione custodisce una fiamma inestinguibile ed è invisibile a tutti, persino agli spiriti. Puoi vederlo solo tu. Portalo sempre con te e attingi il fuoco da lì ogni volta che devi riaccendere la candela."

La castellana seguì il suggerimento della maga e giorno dopo giorno esplorò ogni più segreto anfratto del suo castello e ne conobbe le caratteristiche, le qualità, le difficoltà.

In ogni angolo portò la luce della sua candela, riaccendendola pazientemente con la fiamma del medaglione ogni volta che gli spiriti la spegnevano.
Ovunque aprì le finestre e fece arieggiare gli ambienti. 
Non si arrese di fronte alle porte chiuse a chiave, ma neanche le forzò per aprirle con la violenza. Ogni volta che ci passava vicino con la sua candela, si limitava ad osservarle, con interesse e curiosità.

Un po' alla volta scoprì in esse l’esistenza di spioncini e poté guardare cosa si nascondeva dietro le porte chiuse. E un po' alla volta ne scoprì anche i segreti congegni di apertura e poté varcarne le soglie.
Dietro alcune porte trovò custodite gemme preziose, oro, danaro, tappeti e arazzi: i tesori segreti del castello, un'enorme ricchezza tutta sua e a lei stessa finora sconosciuta.
Dietro altre, trovò incatenati draghi e belve feroci, o rinchiusi veleni, vecchi scheletri e antiche maledizioni su pergamena.
Grazie alla consegna ricevuta dalla maga, la castellana un po’ alla volta si fece coraggio e portò la luce della candela anche lì, tra le belve, i draghi, i veleni e quant’altro, accorgendosi che tutte queste cose facevano più spavento a immaginarsele che a guardarle davvero in faccia così com’erano.

La castellana passò ogni giorno anche per le cucine, e al suo passaggio le cuoche cominciarono a mettere più attenzione nella preparazione dei cibi, ad evitare gli sprechi e a tenere più pulite pentole e stoviglie, e più ordinata la dispensa.
Al tempo stesso non mancarono di mostrare alla padrona tutti i problemi di quella zona del castello: il buco nel muro da cui entravano i topi, la fessura da cui entrava la pioggia, la cappa del camino che non tirava a dovere...

Lo stesso accadde nelle stalle, nelle scuderie, nei granai, nelle cantine e nelle botteghe: ovunque ci fosse gente addetta a una funzione, il semplice passaggio quotidiano della castellana determinò un riallineamento e un ritorno nei ranghi. 
Al tempo stesso ognuno fu messo in condizione di riferire alla padrona, di giorno in giorno, cosa avveniva esattamente nella zona del castello a cui era addetto e che tipo di manutenzione o cambiamento occorresse, perché le cose potessero funzionare meglio.

La castellana, grazie ai suoi tesori portati alla luce, poté ben presto dare l’avvio agli opportuni interventi di restauro del castello e anche saldare un po' alla volta tutti i debiti.
Fu così che, quando a fine anno l’amministratore le portò nuovamente i conti, la situazione risultò molto diversa rispetto alla volta precedente. Il castello non rischiava più la rovina e anzi prosperava. 
L’amministratore si mostrò molto soddisfatto, si rallegrò con la castellana e le disse di continuare così. 

Solo un momento prima di andarsene, mentre stava per salire sulla carrozza, ebbe come un ripensamento. Gli era venuta in mente una certa voce di spesa che la signora aveva messo in preventivo per l'anno successivo e che gli era sembrata davvero esagerata: tre quintali di candele in più del solito!

Fu tentato di tornare indietro per raccomandare alla castellana una maggiore oculatezza sul fronte dei consumi per l'illuminazione. Ma poi si rese conto che non l'aveva mai vista tanto radiosa come quel giorno e non ebbe il cuore di rovinarle la festa.

Così salì in carrozza e se ne andò, pregando il Cielo di mandare alla signora quel po' di senno che ancora le mancava.


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Nella foto, la scala di Palazzo Gallotti a Battaglia, un piccolo delizioso castello che non c'entra niente con questa storia, se non per il fatto che si presta alla fantasia nella ricerca di uno scenario fiabesco


  







               
   

domenica 27 novembre 2016

L'origine delle scarpe. Una favola sul funzionamento della mente, raccontata e commentata da Jon Kabat-Zinn


C'è un'antica storia che racconta come furono inventate le scarpe. 
C'era una volta, tanto tanto tempo fa, una principessa che un giorno mentre passeggiava andò a sbattere con l'alluce su una radice che sporgeva dal sentiero. Seccata, andò dal primo ministro e gli chiese con insistenza che formulasse un editto in cui si dichiarava che il regno doveva essere interamente ricoperto di cuoio, così che nessuno più dovesse patire un simile incidente. Ora, il primo ministro sapeva che il re desiderava sempre accontentare la figlia in ogni modo e dunque avrebbe avuto la tentazione di pavimentare davvero tutto il regno di cuoio; la cosa da una parte avrebbe risolto il problema e avrebbe reso felice la principessa e salvato tutti dall'indegno incidente, ma d'altro canto sarebbe stata pesantemente problematica per molti aspetti, per non parlare della spesa.
 Il primo ministro ci pensò su in fretta [non vorrei dire «su due piedi»] e rispose: «Ci sono! Sua altezza, invece di ricoprire di cuoio tutto il regno, perché non mettiamo insieme dei pezzi di cuoio e li adattiamo ai vostri piedi, convenientemente attaccati fra loro? In questo modo, dovunque andiate, i vostri piedini sarebbero protetti nel punto di contatto con il terreno e noi non dovremmo affrontare una spesa così ingente e rinunciare alla dolcezza della terra». Alla principessa piacque molto quel suggerimento, e così nel mondo comparvero le scarpe, e si evitò una grande pazzia.


Trovo incantevole questa storia; nella sua veste di favola per bambini rivela svariate intuizioni profonde sulla nostra mente. Punto primo: ci capitano cose che generano contrarietà e avversione, due termini che i buddhisti di alcune tradizioni amano usare e che penso descrivano molto accuratamente le nostre emozioni quando le cose «non vanno a modo nostro». Sbattiamo l'alluce, non ci piace per niente; in quel preciso momento e luogo ci sentiamo proprio contrariati, ostacolati, e cadiamo nell'avversione. Potremmo perfino dire: «Odio sbattere l'alluce!». In quel momento e in quel luogo ne facciamo una questione, un problema, di solito «un mio problema»; e allora il problema bisogna risolverlo. Se non stiamo attenti la soluzione può essere di gran lunga peggiore del problema.

Punto secondo: la saggezza suggerisce che il luogo in cui applicare il rimedio sia il punto di contatto nel momento stesso del contatto. Dunque evitiamo di sbattere gli alluci indossando una protezione sui piedi, non ricoprendo tutto il mondo mossi dall'ignoranza, dal desiderio, dalla paura o dalla rabbia.

Possiamo difenderci in modo analogo dal seguito elaborato di pensieri e diemozioni a cascata, spesso fastidiosi oppure affascinanti, che ogni singola, nuda impressione sensoriale innesca. Possiamo farlo portando l'attenzione al punto di contatto, nel momento del contatto con l'impressione sensoriale. E così quando c'è una percezione visiva gli occhi sono momentaneamente in contatto con la nuda e cruda realtà di ciò che si vede; nell'attimo successivo irrompe ogni sorta di pensieri e sentimenti...

«Ah sì, lo conosco.» «Non è carino.» «Non mi piace come mi piaceva quell'altro.» «Mi piacerebbe che rimanesse così.» «Mi piacerebbe che se ne andasse.» «Perché è venuto proprio adesso a darmi fastidio, a ostacolarmi, a frustrarmi?» eccetera.

La cosa, la situazione, è quel che è. Riusciamo a vederla con attenzione aperta e nuda, nel momento stesso in cui vediamo, e poi a portare la nostra consapevolezza a cogliere lo scatenarsi della cascata di pensieri e sentimenti, di preferenze e avversioni, di giudizi, desideri, ricordi, speranze e sensazioni di panico che seguono il contatto originale come la notte segue il giorno?

Se siamo capaci, anche solo per un momento, di limitarci a riposare nella visione di ciò che c'è da vedere e ad applicare con cura la consapevolezza al momento del contatto, possiamo lasciare che questa ci avverta della cascata - generata dalla piacevolezza o spiacevolezza o indifferenza dell'esperienza del momento - nell'attimo stesso in cui inizia; e possiamo scegliere di non lasciarcene intrappolare, quali che siano le sue caratteristiche, ma di lasciare invece che si svolga così com'è, senza correrle dietro se piacevole e senza rifiutarla se spiacevole. In quel preciso momento può darsi che vedremo dissolversi le contrarietà, perché le riconosciamo semplicemente come fenomeni mentali che sorgono nella mente.

Applicando la consapevolezza al punto di contatto nell'istante del contatto possiamo restarcene tranquilli nell'apertura del «vedere» puro e semplice, senza lasciarci trascinare così tanto nell'abituale produzione di pensieri condizionata e reattiva (la quale naturalmente non fa che portare ancora più turbolenza e disturbo alla mente togliendoci ogni possibilità di apprezzare la nuda e cruda realtà di ciò che è oppure, per quel che conta, di reagirvi in modo personale ed efficace).

La consapevolezza dunque ci serve da scarpe, proteggendoci dalle conseguenze dell'abitudine a reagire emotivamente, a lasciarci distrarre, a farci del male senza saperlo; è un'abitudine che affonda le radici nel fatto di non riconoscere, non ricordare e non occupare la natura più profonda del nostro stesso essere nel momento stesso in cui si genera una qualunque impressione dei sensi.

Se applichiamo la consapevolezza in quel momento e in quel modo, la natura del nostro vedere - il miracolo della visione - è libera di essere quello che è e la natura essenziale della mente non ne viene disturbata. In quel momento noi siamo liberi da ogni cosa nociva, liberi da ogni concettualizzazione e da ogni traccia di attaccamento: ci limitiamo a dimorare in pace nella conoscenza di ciò che viene visto, udito, annusato, gustato, percepito con il tatto oppure pensato, che sia piacevole, spiacevole o neutro. Concatenare simili momenti di presenza mentale gli uni agli altri ci permette di riposare sempre di più in una consapevolezza non concettuale, non reattiva, più libera dall'obbligo di scegliere, e ci permette di essere realmente quella conoscenza che è la consapevolezza, di essere la sua spaziosità, la sua libertà.
Mica male, per un paio di scarpe a buon mercato!
In realtà non sono poi tanto a buon mercato, anzi: sono senza prezzo, dunque inestimabili. Non possono nemmeno essere comperate, ce le possiamo solo fabbricare con fatica e con saggezza. Alla fine risulteranno, per dirla con le parole di T.S. Eliot, « costare nientemeno che tutto, tutto quanto ».


(da Jon Kabat-Zinn, Riprendere i sensi. Guarire se stessi e il mondo con la consapevolezza, edizione italiana Tea Pratica, 2008, p.46)

Le immagini di questo post sono tratte da opere di  Michel Tcherevkoff

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lunedì 14 novembre 2016

Anche questo passerà. Una fiaba sufi e altre vicende

Nell'immagine un dipinto di Merab Gagiladze
C'era una volta un re che un giorno chiamò a sé tutti i saggi del regno e disse loro: "Sono stanco di sentirmi come un fuscello in balìa della sorte, felice, ansioso o disperato a seconda di come vanno le cose. Vorrei trovare il modo di affrontare più serenamente gli alti e bassi della vita. Potete darmi un suggerimento? Che so, una frase, una formula che io possa ripetere a me stesso in qualunque circostanza, e che mi aiuti a rimanere saldo e stabile nei momenti di difficoltà,  mi risollevi lo spirito nei tempi di sfortuna e mi mantenga  equilibrato nei momenti di successo?"
I saggi si riunirono e, dopo una lunga discussione, si trovarono finalmente d'accordo sulla formula da suggerirgli. La scrissero su un pezzetto di carta e consegnarono il bigliettino al re, raccomandandogli di non leggerlo subito per pura curiosità, ma di aspettare il momento del bisogno. 
Il re mise allora il foglietto in un piccolo scrigno segreto alloggiato sotto il diamante del suo anello e non ci pensò più.
Dopo qualche tempo, il regno fu attaccato a sorpresa dall'esercito di un regno vicino. Il re e i suoi uomini combatterono coraggiosamente ma persero la battaglia. Il re fu costretto a fuggire da solo con i nemici alle calcagna. Si inoltrò nel folto di un bosco e a un certo punto si accorse di essersi infilato in una via senza uscita. Di fronte a lui c'era infatti un burrone e proseguire significava precipitare e morire.
Solo sull'orlo del precipizio, con i nemici che lo stavano inseguendo e che probabilmente tra poco lo avrebbero raggiunto, il re si sentì perso. Ma a quel punto  un raggio di sole si rifletté sul diamante del suo anello e il re si ricordò del messaggio dei saggi. Aprì allora l'anello e lesse il biglietto. Sopra c'era scritto: "Anche questo passerà" .
Il re lesse e rilesse quelle parole più volte finché comprese finalmente il messaggio dei saggi. Disse tra sé: "Sì, anche questo passerà. Fino a ieri godevo del mio bel regno ed ero un re potente e onorato. Ora il regno è sparito e con esso tutti i suoi piaceri. Ora sono qui da solo, sull'orlo di un precipizio e con i nemici che mi  inseguono. Ma anche questo momento passerà, come ogni altro momento. Come passa il momento della sicurezza, così passa il momento del pericolo." 
Un senso di calma scese allora dentro di lui fino a inondargli la mente e il cuore. E mentre continuava a stare in quel luogo senza vie d'uscita, un po' alla volta si rese conto anche di tutta la bellezza della natura che lo circondava,  così ricca di colori e di profumi, e apprezzò il canto degli uccelli, e si accorse dello stormire delle foglie mosse dal vento. Dopo un po' gli giunse alle orecchie anche il rumore dei cavalli dei nemici, prima più lontani, poi sempre più vicini, e voci di uomini che si scambiavano indicazioni gridando. Sentì l'esercito fermarsi e indugiare a poca distanza da lui. Finché un po' alla volta sentì quelle voci e quel rumore di cavalli allontanarsi sempre più, fino a scomparire. I nemici non lo avevano visto e si erano avviati in un'altra direzione. Era in salvo.
Dopo quel giorno, il re coraggiosamente e tenacemente ricompose e riorganizzò  un po' alla volta il suo esercito disperso e riuscì alla fine a liberare il suo regno dall'invasore.
Traversò allora in trionfo le vie della capitale e il suo popolo lo accolse con grandi festeggiamenti. La gente al suo passaggio gli lanciava petali di fiori e gli tributava ogni onore. E per le strade le persone  facevano festa chiassosamente, tra danze, musiche e risate.  
Il re sentiva lievitare dentro di sé la contentezza e l'orgoglio. E a un certo punto si trovò a commentare tra sé: "Questa è la prova del mio valore e del fatto che il mio popolo mi ama e mi onora. Sono un re forte, coraggioso, benvoluto e difficile da sconfiggere."
Il suo anello di diamante mandò allora un riflesso di luce dritto dentro ai  suoi occhi. Il re si risvegliò dai suoi pensieri e si ricordò che  i saggi gli avevano dato un messaggio valevole non solo per i tempi difficili o sfortunati, ma anche per quelli del successo e della fortuna. 
Rilesse il biglietto custodito nell'anello: "Anche questo passerà...". 
La pace e il silenzio scesero allora dentro di lui, in  mezzo al chiasso e alla baraonda generale, e la nebbia dei pensieri si diradò nella sua mente
Da protagonista identificato con le manifestazioni del momento,  si sentì umile e quieto testimone degli eventi. 
Ecco la vittoria,  la gioia e la festa, ed ecco anche la consapevolezza che niente dura per sempre.
Tutto ciò che arriva a un certo punto se ne va.
Una ragione in più per vivere pienamente ogni momento, ricordandosi che è unico, prezioso, irripetibile.
Nell'immagine un dipinto di Merab Gagiladze
Da giovane, quando di una serie di dodici piatti me ne restavano a un certo punto solo quattro, la prendevo piuttosto male. All'epoca avevo le bambine piccole e un discreto andirivieni di gente per la casa. Qualche piatto sfuggiva di mano alle bambine, qualcuno agli ospiti o alla tata, qualcun altro a me. E insomma si faceva presto a spaccarne otto.
Al terzo servizio di piatti si impose una decisione: o trovavo dei piatti infrangibili o dovevo accettare che i piatti di porcellana e di ceramica prima o poi si sarebbero rotti e non c'era niente da fare.
In un negozio di articoli per la casa scoprii una promozione per una deliziosa serie di piatti a fiorellini. Mi piacevano un sacco, anche se davanti agli occhi me li vedevo già tutti in cocci. Visto che costavano poco, decisi di comprarne diciotto anziché dodici, così ne avrei avuti sei di scorta e ci avremmo messo più tempo ad arrivare a quattro.
Quei piatti alla fine sono durati più a lungo del previsto. Li uso tuttora e non saprei dire quanti sono (certamente più di quattro). Continuano a piacermi, per via dei loro fiorellini allegri, ma la vera caratteristica che li ha resi   speciali è di essere entrati in casa mia già con l'idea che si sarebbero rotti. Per cui non me la sono mai presa, quando se ne è rotto qualcuno. E non perché era costato poco, ma perché ne avevo accettato la rottura prima ancora che si verificasse.
Quante cose nella vita  riusciamo a considerare in questa prospettiva e ad accettare che passeranno, si romperanno, finiranno, ma non per questo non meritano di essere vissute fino in fondo, momento per  momento?
A volte la fine delle cose può essere per noi motivo di dolore, che si tratti di una fase della vita che si chiude, della fine di una relazione, della  conclusione di un progetto o della morte di qualcuno.
A volte può essere fonte di gioia e liberazione, come la fine di una malattia, di una guerra,  di una prigionia, o anche il pensionamento se il nostro lavoro era per noi fonte di tormento.
Tutto ciò che ha un inizio ha anche una fine. Il sole sorge e poi tramonta. Un fiore sboccia e poi appassisce. Noi stessi nasciamo, cresciamo e moriamo. Possiamo gioire o disperarci per questo, ma la fine delle cose è nella natura stessa delle cose. La legge del cambiamento è l'unica realtà che non cambia mai.
Quando riusciamo ad accettare davvero questa realtà, non consideriamo più le nostre perdite come una sfortuna squisitamente nostra, perché l'evento con cui stiamo facendo i conti è solo una delle tante  manifestazioni di quest'unica realtà universale.
Nell'immagine un dipinto di Merab Gagiladze
All'epoca delle stragi di piatti, una sera tornando a casa trovai una statuetta di ceramica decapitata.
"Chi l'ha rotta?", chiesi alla mia bambina di quattro anni.
"Si è rotta da sé", mi rispose lei con naturalezza.
Aveva senso in quel momento stabilire chi fosse il colpevole? Se magari una palla, o piuttosto la bambina che l'aveva lanciata, o la sua amichetta che non l'aveva parata, o la tata che le aveva lasciate giocare in salotto, oppure io che non avevo messo la statuetta in un posto sicuro?
Qualunque cosa possa dire una legge o una polizza di assicurazione circa la responsabilità per la rottura di una cosa fragile, la verità ultima è nella natura delle cose.
La statuetta si era rotta perché era di ceramica.
Per cui alla fine, tutto sommato, aveva ragione la bambina.
Quella statuetta non l'aveva rotta nessuno. Si era rotta da sé, secondo natura.

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mercoledì 14 settembre 2016

Le campane del tempio. Un racconto di Anthony De Mello


Il tempio sorgeva su di un’isola a due miglia dalla costa.
E aveva mille campane. Campane grandi, campane piccole, campane modellate dai migliori artigiani del mondo. Quando soffiava il vento o infuriava la tempesta, tutte le campane del tempio suonavano a distesa, all’unisono, producendo una sinfonia che mandava in estasi il cuore dell’ascoltatore.
Ma con il passare dei secoli l’isola sprofondò nel mare e, con essa, il tempio e le campane. Un’antica leggenda narrava che le campane continuavano però a suonare, senza sosta, e che chiunque ascoltasse attentamente poteva udirle. Ispirato da questa leggenda, un giovane percorse migliaia di miglia, deciso ad udire quelle campane.
Per giorni sedette sulla spiaggia, di fronte al posto dove una volta sorgeva il tempio, e ascoltò, ascoltò con tutto il suo cuore. Ma tutto  ciò che riusciva a sentire era il rumore delle onde che si frangevano sulla spiaggia. Fece ogni sforzo per scacciare il rumore delle onde così da poter sentire le campane. Ma tutto invano; il suono del mare sembrava invadere l’universo.
Perseverò per molte settimane. Quando si perdeva d’animo si recava ad ascoltare i sapienti del villaggio che parlavano con devozione della leggenda delle campane del tempio e quelli che le avevano udite e dimostravano che la leggenda era vera. E il suo cuore s’infiammava nell’ascoltare le loro parole… solo per scoraggiarsi di nuovo quando settimane di ulteriori tentativi non davano alcun risultato.
Alla fine decise di rinunciarci. Forse non era destinato ad essere uno di quei fortunati che sentivano le campane. Forse la leggenda non era vera. Sarebbe tornato a casa riconoscendo il proprio fallimento. Era il suo ultimo giorno, e si recò nel suo posto preferito sulla spiaggia per dire addio al mare e al cielo e al vento e agli alberi di cocco. Si sdraiò sulla sabbia, con lo sguardo rivolto verso il cielo, ascoltando il fragore del mare. E non oppose resistenza a quel rumore quel giorno. Invece, si abbandonò ad esso e trovò che era un rumore piacevole, rasserenante, questo fragore delle onde. Ben presto si perse talmente in quel rumore da non essere quasi più cosciente di sé, tanto profondo era il silenzio che quel suono produceva nel suo cuore. Nella profondità di quel silenzio lo sentì ! Il tintinnio di una campanella seguito da un’altra, e un’altra, e un’altra ancora…. Ed ecco che ognuna delle mille campane del tempio suonava a distesa in un glorioso unisono, e il suo cuore fu rapito dalla meraviglia e dalla felicità.
Se vuoi sentire le campane del tempio, ascolta il rumore del mare.

domenica 12 giugno 2016

Gabbie reali e gabbie mentali. Il potere liberatorio della consapevolezza

Nell'immagine un dipinto di Merab Gagiladze
C'è un racconto di Jorge Luis Borges, nel libro L'Aleph, che parla di un uomo che era prigioniero in una gabbia  e che condivideva la sua sorte con un grosso felino maculato, chiuso nella gabbia accanto alla sua.
Ho letto questo racconto più di vent'anni fa e da allora non l'ho mai più preso in mano. Proverò a riassumervelo, così come mi esce oggi dalla tastiera, senza alcuna pretesa di fedeltà all'originale (che peraltro ho deciso di non riguardare per non perdere l'ispirazione).
Facciamo che l'uomo era una specie di sacerdote di una fede imprecisata e il felino un giaguaro o qualcosa di simile. Per buona parte della storia l'uomo si dispera non tanto per il fatto in sé di essere prigioniero e condannato a passare il resto dei suoi giorni in una gabbia, quanto perché questa condanna lo fa sentire tradito e abbandonato dal suo dio. Questo suo dio  gli aveva infatti promesso una rivelazione prima della morte, ma ora sembrava essersi rimangiato la parola. Lo aveva condannato a marcire in una cella di isolamento: che rivelazione poteva mai arrivargli in quelle condizioni?
Mentre il giaguaro passava le sue ore camminando avanti e indietro nella gabbia,  l'uomo trascorreva il suo tempo tra mille pensieri tormentosi.
Facciamo conto che il suo dialogo interno fosse più o meno così: "Cosa ho fatto di male, per meritarmi questo? Come può essere che il mio Dio mi abbia tradito? Se la mia fine è questa, tutta la mia vita è senza senso. Ho dedicato tutte le mie forze, le mie risorse, i migliori anni della mia vita a servire fedelmente il mio Dio pur di ottenere questa rivelazione. E questo è il risultato? Che sorte ingiusta! Com'è possibile? Cosa avrei dovuto fare di diverso? Forse avrei dovuto... Forse avrei potuto... Forse dovevo essere meno... O forse dovevo essere più... Forse è colpa del tale...  Forse è colpa di quella volta che... Sì, mi ricordo bene di quella volta che... e di quell'altra che... e di quell'altra ancora... Oh, che dolore, che rabbia, che disperazione... No, è tutta colpa mia... Avrei dovuto capire che.... Avrei dovuto pensarci per tempo... Avrei dovuto fare come il tale... (lui sì che...) Sono il solito questo... Sono il solito quello... Perché sono nato così? Mi odio... Sono un fallimento...  Che ne sarà di me? Che campo a fare?  Con questo stupido giaguaro, poi... Odio tutto questo... Non posso sopportare una simile sfortuna... Non è giusto che le cose siano andate così proprio a me... "
Insomma l'uomo era tormentatissimo, non vedeva soluzioni al suo problema e si sentiva intrappolato in una condizione disperata e senza vie d'uscita.
La cosa che più colpisce di questa storia è l'evidenza che l'uomo era prigioniero di due gabbie: una gabbia reale e una gabbia mentale.
Stare in gabbia è una condizione spiacevole per definizione. Tuttavia il racconto non parla mai di maltrattamenti da parte dei carcerieri, di digiuni, torture o altri tormenti imposti al prigioniero dall'esterno. E anzi precisa che, per la scala di valori di quell'uomo, la prigionia sarebbe stata sopportabile se solo non avesse interferito con il suo desiderio di ottenere la rivelazione.
La sofferenza descritta è tutta interiore: la lotta disperata di una mente che oscilla tra la brama di qualcosa  da cui  crede dipenda la sua felicità (un oggetto, una condizione, uno stato - in questo caso l'ottenimento della rivelazione) e il rifiuto, l'insofferenza, l'odio  verso tutte le condizioni considerate impeditive della propria felicità.
Qualcuno potrebbe addirittura osservare che per la maggior parte della storia  l'uomo non stava tanto nella gabbia reale, quanto piuttosto nei luoghi mentali in cui lo trasportavano i suoi pensieri. Un po' nel passato, un po' nel futuro, un po' nel condizionale.
E ancora si potrebbe notare la totale assenza sulla scena di altri personaggi, come per esempio aguzzini e giudici. Se c'è una sofferenza inflitta all'uomo da aguzzini e giudici, questi appartengono alla  gabbia mentale più che alla gabbia reale. Pensieri  che torturano senza tregua. Giudizi impietosi della mente che valuta, critica, rimprovera, condanna senza appello.
Come va a finire la storia di quest'uomo?
Lo vedremo tra un momento. Prima facciamo un intervallo.

***
Vi invito - ora proprio ora - a prendervi una brevissima pausa di intimità con voi stessi e a fare un piccolo esercizio di consapevolezza, della durata di pochi minuti.
Assumete una posizione eretta e vigile (ma non rigida), seduti o in piedi. Provate a sentire il contatto del vostro corpo con le superfici di appoggio, dei vostri piedi con il pavimento, del bacino con il sedile, e la forza di gravità che vi tiene ancorati  e saldi sulla vostra base. Se siete in piedi tenete le ginocchia morbide e in ogni caso provate a sentire la vostra colonna allineata che vi sostiene.
Portate ora gentilmente l'attenzione all'interno di voi stessi, e restate ancorati al momento presente osservando il vostro respiro. Sentite l'aria che entra ed esce dal corpo, l'addome che si gonfia ad ogni inspirazione e si sgonfia ad ogni espirazione. E provate a chiedere a voi stessi: 
- Che pensieri ci sono nella mia mente in questo momento?
- Che tipo di sentimenti ci sono in questo momento nel mio cuore?
- Che sensazioni fisiche provo nel mio corpo in questo momento?
Accogliete qualunque risposta dovesse emergere a queste domande con curiosità, apertura e accettazione, e prendetene nota. Non forzate niente. Non pretendete che arrivino risposte "giuste". L'unica risposta giusta per questo esercizio è farlo; è riproporvi di prendere atto intenzionalmente di tutto ciò che state  realmente  vivendo a livello cognitivo, emotivo, sensoriale; e riuscire ad osservare ciò che emerge così com'è, senza giudicarlo, senza fretta di cambiarlo, o eliminarlo. Standoci insieme in modo consapevole.
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Fine dell'esecizio.
Non ha importanza quale sia stato il contenuto effettivo della vostra esperienza soggettiva.
Qualunque cosa abbiate appena osservato nel vostro panorama interiore, in tanto siete riusciti a vederla in quanto avete assunto una certa posizione rispetto alla vostra esperienza. Una posizione, per così dire, un po' più distante, più decentrata.
Qualunque cosa, dopo tutto, per essere vista, per diventare oggetto della nostra osservazione, deve essere messa a una certa distanza. Altrimenti non riusciamo a vederla: ci appanna semplicemente la vista.
Questo vale in particolar modo per le nostre gabbie mentali, per i pensieri che ci tengono prigionieri ed alimentano i nostri stati di malessere emotivo, di tensione fisica, e che ci sottraggono energia vitale, ci impediscono di vedere le opportunità che la vita ci offre e ci mette sotto il naso, e a cui non facciamo caso, a cui non ci accostiamo, a cui non ci apriamo, chiusi come siamo negli spazi angusti della nostra sofferenza.
***
Ed ecco come va a finire il nostro racconto.
L'uomo in gabbia a un certo punto toccò il fondo della sua infelicità, e si rese conto che - a prescindere da ciò che lui avrebbe voluto o non avrebbe voluto - le cose stavano esattamente come stavano e non c'era  niente da fare.
Questa era la sua gabbia. Quella era la gabbia del giaguaro.
Qua stava lui. Là stava il felino.
La cosa era senza senso, ma da qui non si usciva.
Questa presa di coscienza, quest'accettazione della realtà (che non è un farsela piacere, e nemmeno un arrendersi passivamente alla sfortuna, ma è piuttosto un essere d'accordo sul fatto che la realtà è quella e non un'altra), liberò l'uomo dalla più terribile delle sue due gabbie, e cioè la gabbia mentale.
Egli lasciò andare finalmente i pensieri che gli inondavano la mente, rapendolo, accecandolo, portandolo lontano dal qui e ora,  e tornò in uno stato di totale presenza nel momento presente, nella sua gabbia reale, così com'era.
Ed ecco che a quel punto avvenne una svolta.
Finalmente l'uomo si mise ad osservare attentamente il manto del giaguaro, che per tanto tempo aveva tenuto sotto gli occhi e a cui non aveva mai prestato una particolare attenzione.
E un po' alla volta cominciò ad accorgersi che i disegni della pelliccia maculata non erano casuali. Non  erano semplici macchie o ghirigori.
Erano i caratteri grafici con cui era scritto un messaggio segreto!
La rivelazione che tanto aspettava era lì, proprio sotto i suoi occhi.
E solo ora si rendeva conto che era sempre stata lì, davanti a lui e solo per lui.
Nessun altro, infatti, avrebbe potuto conoscerla.
Il suo Dio non l'aveva tradito.
La promessa divina era stata mantenuta.
L'uomo sentì allora il cuore inondarsi di gioia.
Questa era la sua gabbia. E quella era la gabbia del giaguaro.
Qua stava lui. E là stava il felino.
Da qui non si usciva.
Certo, da qui non si usciva.
Ma era cessato il tormento.
E la sua vita era colma di senso.
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MBSR Mindfulness Based Stress Reduction . Programma di gruppo per la riduzione dello stress basato sulla consapevolezza. Durata otto settimane. Conduce gli incontri la
Dr. Maria Michela Altiero psicologa e istruttrice di protocolli mindfulness based
Per informazioni chiamare il n.388.8257088