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mercoledì 1 gennaio 2020

La mente della spiaggia e due tracce audio per i momenti difficili



Il mio augurio per l'anno nuovo è che noi possiamo coltivare lo stato mentale di una spiaggia continuamente lavata dalle onde, lasciando fluire le cose della vita con naturalezza, senza che la mente generi sofferenza inutile con dimensioni di pensiero disfunzionali.
A seguire alcune parole di Deng Ming-Dao sulla mente della spiaggia, tratte da  Il Tao per un anno (meditazione n.41) e in conclusione le due tracce audio delle pratiche di fine anno pubblicate sul canale YouTube e già anticipate e commentate nel video di Natale.
Si tratta di due esercizi che possono esserci d'aiuto quando le circostanze da affrontare sono particolarmente difficili e sentiamo il bisogno di darci conforto o di essere aiutati a trovare un valore anche in un momento che apparentemente un valore non ce l'ha, in quanto si presenta solo come indesiderabile, difficile, problematico.
L'intenzione che coltiviamo in questi casi sarà di prenderci cura compassionevolmente di ogni nostro disagio (come nella pratica del body scan compassionevole) e quindi di affrontare la realtà così com'è (accettare la sfida)  provando ad osservare l'esperienza da una prospettiva che lasci  spazio alla complessità, alla natura cangiante dell'esperienza, alla coscienza che i processi evolutivi sono fatti di momenti sì e di momenti no - tutti importanti ma non tutti piacevoli -  e che ciò che può aiutarci è diventare sempre più bravi a mantenere un equilibrio dinamico mentre cavalchiamo l'onda del momento, che ora è così ma non è sempre così, che ora è così ma non dura per sempre.
Buon anno a tutti! Buona pratica.
Che un'onda di serenità arrivi nei nostri cuori e nelle nostre menti e che noi ce ne lasciamo inondare!

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Orme sulla sabbia
subito dilavate:
la mente della spiaggia.

Andare in spiaggia significa passeggiare all’aria fresca,
ascoltare il suono delle onde,
sentire la sabbia sotto i nostri piedi.
Il sottile nastro che separa la terra dal mare
è un luogo perfetto per comprendere lo spirito della saggezza.
Così come esiste un equilibrio dinamico
fra la sabbia e l’acqua,
esiste un equilibrio dinamico
fra la parte inattiva e la parte attiva della nostra mente.
Così come la sabbia viene costantemente dilavata,
dovremmo liberare la nostra mente
dalle impressioni che vi indugiano. [...]

Deng Ming-Dao

Foto di Zack Minor on Unsplash
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Ed ecco le due nuove pratiche.
Non sono esattamente pratiche per principianti. Intraprenderle avendo già un certo allenamento con pratiche di concentrazione, di monitoraggio aperto, di gentilezza amorevole, di compassione, può consentirci di cogliere aspetti che altrimenti possono sfuggire. Ma comunque vada, lasciamo che nel nostro bagaglio ci sia qualcosa che prima o poi potrà tornarci utile. Il viaggio è lungo, la vita ci sorprende.







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martedì 29 maggio 2018

Affrontare il cancro con la mindfulness. Incontro gratuito sul tema il 21 giugno


Il 21 giugno dalle 18 alle 20 ci incontreremo in studio a Torre del Greco per parlare di un programma per la riduzione dello stress dedicato specificamente alle persone in cura per il cancro. 
É il programma MBCR (Mindfulness-Based Cancer Recovery) sviluppato da due dei massimi esperti mondiali in psicooncologia, Linda Carlson e Michael Speca,  docenti presso l'Università di Calgary, in Canada. Si tratta di un percorso di gruppo di otto settimane che, attraverso l'insegnamento di gentili esercizi pratici derivati dalla tradizione delle pratiche meditative, mette le persone sulla strada che conduce "all'occhio calmo del ciclone cancro" con effetti considerevoli in termini di miglioramento della qualità della vita.
Le pratiche di mindfulness si apprendono in gruppo e poi si continuano nella vita quotidiana individualmente.La dimensione di gruppo consente poi anche momenti di condivisione della propria esperienza con altre persone, in un clima di calore, ascolto reciproco e vicinanza umana, dove il sostegno del gruppo diventa anche trainante rispetto all'impegno che viene richiesto a ciascuno, sia per la presenza agli  appuntamenti sia per continuare a praticare a casa.  
Gli effetti benefici del programma (come quelli del programma MBSR, con cui presenta una forte affinità) sono comprovati da varie ricerche scientifiche.
"Noi non ti stiamo presentando la mindfulness come cura del cancro", dicono Linda Carlson e Michael Speca nel loro libro Affrontare il cancro con la mindfulness. "Piuttosto riteniamo che ti possa offrire la possibilità di arricchire notevolmente la tua vita, aiutandoti a gestire e fronteggiare i sintomi e gli effetti collaterali legati al tumore, migliorando la qualità dei tuoi giorni. La mindfulness è in grado di migliorare anche le prestazioni del sistema immunitario, contribuendo a ridurre nel corpo i livelli nocivi degli ormoni dello stress, portando quindi a cambiamenti assai benefici. [...] Il cancro può rappresentare un'esperienza che rende profondamente soli, e anche se l'esperienza di ogni persona con tumore è sempre unica, umilmente vi offriamo la sapienza derivata da un'antica tradizione che si è rivelata utile per molte persone come te, che hanno sofferto a causa della loro diagnosi o della diagnosi fatta a familiari e/o amici. [...] La nostra speranza è quella di condividere con te la comprensione di ciò che la mindfulness può offrire nel modo di affrontare il cancro e sostenere il relativo processo di guarigione."
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L'incontro del 21 giugno è gratuito. Occorre prenotarsi al n.388.8257088 oppure inviando una email all'indirizzo psicologa.altiero@gmail.com.



sabato 22 ottobre 2016

Mindfulness. Accogliere il dolore fisico lasciando andare la paura di sentirlo. Traccia audio sulle sensazioni fisiche

"Ogni giorno ci sono centinaia di situazioni indesiderate che sorgono come le onde dell'uniforme mare delle nostre vite. [...] Proviamo a lavorare intenzionalmente con questa schiumeggiante umidità che ci viene incontro mascherata da ciò che non desideriamo. Che cosa potrebbe succedere, se riuscissimo anche solo per pochi istanti, a interrompere questa frenetica attività di negazione, recriminazione o rifiuto che generalmente accompagna simili situazioni? Proviamo a vedere se riusciamo a vivere per alcuni attimi o minuti lasciando le cose esattamente come sono..."  (Saki Santorelli, Guarisci te stesso

Personalmente considero miracoloso ogni evento che percepisco nel corpo. A volte mi dico che se stessi davvero attenta a tutto ciò che avviene nel mio corpo in ogni singolo momento della mia vita, vivrei in uno stato di permanente ammirato stupore. Vedo. Miracolo! Sento gli odori. Miracolo! Sento i suoni, i sapori, il caldo, il freddo, il liscio, il piacere, il dolore. Miracolo miracolo miracolo! Per non parlare di tutte le funzioni corporee e degli incredibili processi che avvengono nel nostro corpo spontaneamente, mentre noi siamo indaffarati e presi dalle nostre mille faccende importanti (che non avranno più tanta importanza il giorno che il nostro corpo deciderà di spegnersi, o che potranno diventare comunque secondarie se il nostro corpo si incepperà costringendoci una buona volta a prestargli attenzione).  
Quando uno assiste a un miracolo di solito non sta tanto a sottilizzare circa il fatto se è gradevole o sgradevole. Sgrana gli occhi, resta a bocca aperta, e presta la massima attenzione a ciò che avviene, per non perdersi il minimo dettaglio dell'esperienza.
Oggi riproponiamoci di assumere questo tipo di atteggiamento nei confronti del nostro corpo e di tutto ciò che sentiamo standoci dentro. Proviamo a prestare intenzionalmente attenzione alle nostre esperienze sensoriali momento per momento, così come si presentano, senza preferenze, senza giudizi, prescindendo  dal fatto che siano gradevoli, sgradevoli o neutre. Proprio come si farebbe se si fosse testimoni di un evento eccezionale, degno del massimo interesse a prescindere dal suo livello di gradevolezza.



La verità è che noi tutti abbiamo la tendenza ad aprirci alle esperienze piacevoli e a sottrarci a quelle spiacevoli, cosa che in sé e per sé va bene e ci consente per esempio di non bruciarci vicino al fuoco, perché ci teniamo a distanza di sicurezza, e di non morire assiderati perché corriamo a metterci un cappotto quando ci accorgiamo di avere freddo. 
Ci sono tuttavia delle volte in cui questo atteggiamento non è funzionale, perché il rifiuto rispetto all'esperienza dolorosa e il tentativo di proteggerci dal dolore non ci libera da esso, ma magari aggrava anche la situazione, aggiungendo qualche tensione nel corpo, intorno all'area dove la sensazione dolorosa si presenta (discorso che vale peraltro sia per il dolore fisico sia per quello emotivo, e avremo modo di riparlarne).
Oggi vi presento una traccia audio che guida una pratica formale di mindfulness tesa proprio a portare l'attenzione alle sensazioni del corpo senza rifiutarne nessuna, ma anzi con l'invito a sentire e prestare attenzione anche a quelle sgradevoli che dovessero emergere mentre pratichiamo.
Il suggerimento è di non accostarsi a questa pratica con l'intenzione di sbarazzarsi del dolore fisico ma piuttosto con l'intenzione di incontrarlo, conoscerlo meglio e venirci a patti. Quali sono i patti? Molto semplici. Anche senza dirli a parole, hanno a che fare con un atteggiamento accogliente verso il dolore, come se gli dicessimo: "Benvenuto.  Piacere di fare la tua conoscenza. Lascia che io ti conosca meglio. Lascia che io ti abbracci. Lascia che io ti consideri parte del miracolo, come ogni altro aspetto del corpo che abito". 
E anziché fuggire dal sentire, anziché chiudere le porte al sentire doloroso per paura di soffrire, ci apriamo ad esso coraggiosamente e osserviamo la nostra esperienza con attenzione, con interesse, con una curiosità calda e amorevole, proprio come farebbe una mamma che sta vicino al suo bambino con la febbre o il mal di pancia, e lo cura anche con la sua semplice presenza, la sua disponibilità a stare lì con lui, prestandogli attenzione e osservando come evolve la situazione momento dopo momento.
Ad un certo punto può darsi anche che la mamma metta un cuscino dietro la testa del bambino o gli rimbocchi le coperte,  restando ad osservare cosa cambia e cosa non cambia nello stato del figlioletto grazie a quel piccolo intervento. E questo è  un po' l'atteggiamento che assumeremo anche noi quando seguiremo le indicazioni della voce guida e "faremo qualcosa"  (per esempio respirare nelle zone dove avvertiamo il disagio o la tensione). L'importante è che ci sia chiaro che l'esercizio non consiste tanto nel fare queste cose (ne potremmo fare altre centomila, volendo, e continuare così a perpetrare l'abitudine a reagire allo stimolo doloroso, senza ascoltarlo, ma solo cercando di non sentirlo) quanto nell'imparare ad accostarci quietamente ai disagi che provengono dal corpo, lasciando andare la paura di sentirli e imparando così a stare con essi in un modo completamente nuovo, che trasforma il dolore e il disagio perché cambia il nostro modo di relazionarci con essi.
Chiudo qui questo post, anche perché mi rendo conto che non ha molto senso continuare a scrivere parole su parole su una questione che non va tanto "capita" quanto "sperimentata". Certo, per noi che siamo esseri pensanti può risultare difficile accostarci a delle pratiche che non capiamo. E' come richiedere un atto di fede. Ma fede in che? Suggerirei di provare ad aver fede, fiducia, nella nostra capacità di poter fare qualcosa per noi stessi e di accudirci, curarci, semplicemente stando davvero in contatto con il nostro corpo così com'è, senza fuggire dal sentire fisico. Fede che un corpo abitato dalla consapevolezza è diverso da un corpo abbandonato dalla mente, proprio come una casa abitata e con il camino acceso è diversa da una casa  abbandonata, fredda e con le luci spente. 
Vi lascio finalmente alla traccia audio, ricordandovi ancora una volta che tutte le tracce audio finora pubblicate servono a sostenere la pratica individuale a casa di chi sta seguendo o ha già seguito uno dei programmi mindfulness-based che propongo dal vivo (per chi fosse interessato, alla pagina degli eventi c'è il calendario dei prossimi corsi in programma e delle relative presentazioni gratuite).
Le tracce audio sono solo semplici esercizi, ma non possono in alcun modo considerarsi sostitutive dei percorsi dal vivo, dove entrano in gioco molte altre componenti, assolutamente determinanti ai fini degli effetti trasformativi che la mindfulness può portare nelle nostre vite.

martedì 16 febbraio 2016

Dire le verità difficili ai bambini

Nell'immagine dipinto di Zayasaikhan Sambuu tratto dal blog "Il mondo di Mary Antony"
Un'illusione abbastanza diffusa tra noi adulti è quella di poter proteggere i nostri bambini dalle difficoltà della vita  nascondendo loro le realtà spiacevoli. Alcuni argomenti particolarmente difficili da trattare, come un lutto in famiglia o altri fatti dolorosi dell'esistenza, possono venire taciuti per timore dell'impatto che potrebbero avere sui piccoli, e si cede così alla tentazione di fingere con loro che "non sia successo niente".
Il problema è che se anche riusciamo a nascondere ai bambini la realtà dei fatti,  non è così facile nascondere  loro le nostre emozioni.  Queste ultime infatti i bambini le percepiscono comunque ma, non conoscendo i fatti a cui si accompagnano, non riescono a dare loro un senso. La conseguenza è che possono sentirsi disorientati e confusi.
Probabilmente ognuno di noi sa per esperienza come sia spiacevole cogliere un'incongruenza tra ciò che ci viene detto a parole ed il clima emotivo che accompagna le parole. Quando percepiamo a pelle che qualcosa non va e chiediamo:"Che succede?",  può essere fastidioso sentirsi rispondere "Niente",  e a volte anche allarmante, se respiriamo nell'aria una certa gravità che viene invece negata verbalmente.
In un bambino una situazione del genere, se ripetuta e protratta nel tempo, rischia di minare la sua fiducia in se stesso e nel mondo.
Se il bambino sente che qualcosa non va, ma il suo sentire spontaneo viene disconfermato dagli adulti di riferimento (che sostengono che non è vero che qualcosa non va), questo non lo aiuta a imparare a fidarsi di se stesso e di quello che sente, ma piuttosto lo invita a interpretare la sua risonanza interna come un campanello d'allarme che grida senza motivo.
Al tempo stesso come può fidarsi un bambino del mondo, se questo mondo gli fa paura per via di qualcosa che non sa cos'è? Paradossalmente insomma, la nostra intenzione di proteggere un bambino presentandogli un  mondo migliore di quanto non sia il mondo reale, può produrre un effetto opposto a quello sperato.
"Un bambino è in grado di accettare una verità anche dolorosa -  dice Alba Marcoli nel suo libro Il bambino lasciato solo - se gli viene rivelata in modo rispettoso delle sue emozioni e tenendo conto della sua età, purché non venga lasciato solo di fronte a cose più grandi di lui che non capisce e che lo disorientano. È essere lasciato da solo, abbandonato emotivamente, quello che gli fa più male e lo fa sentire impotente, confuso, disorientato, senza più punti di riferimento."
Noi adulti, anche con le migliori intenzioni, possiamo comportarci in modo inadeguato proprio con i bambini che amiamo di più. Molte volte infatti non si tratta di mancanza d'amore, ma di comportamenti che mettiamo in atto  in base a un funzionamento mentale, che forse in passato o in altre circostanze può esserci andato anche bene, ma  che oggi richiede di essere riconosciuto e modificato, per aiutare i nostri bambini a sentirsi capiti e sostenuti dai grandi, ed offrire a noi adulti anche il piacere di sentirci in sintonia con i nostri bambini.
Ed è proprio questa "sintonia adulto-bambino (che diverrà in seguito la sintonia con se stessi) - dice ancora Alba Marcoli - l'area danneggiata dai segreti che pesano come macigni nelle storie familiari e che vengono nascosti ai bambini pensando di proteggerli. Ne conseguono due solitudini infinite: quella dei bambini ma anche quella degli adulti.
I bambini non possono provare l'utilissima esperienza evolutiva di essere accompagnati in modo rispettoso in qualche difficoltà, imparando così implicitamente che anche queste possono essere superate e rinforzando di conseguenza la loro fiducia in se stessi. Noi, a nostra volta, non possiamo provare l'esperienza altrettanto evolutiva di sentirci degli adulti che riescono ad accompagnare un bambino anche nei momenti più difficili, evitando così il rischio che si senta solo e abbandonato davanti a qualcosa di più grande di lui e sia spinto a interiorizzare un'esperienza che col tempo potrà minare alla base la fiducia nelle sue stesse capacità."
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sabato 21 marzo 2015

Vivere una vita di valore accettando il "mal di mare" che comporta

Quando mi chiedono cosa significhi "Ciò che si muove non congela", di solito rispondo che la cosa migliore è scoprirlo da sé; infatti è una formula che si presta a varie interpretazioni.
Ciò non toglie che questa frase abbia per me anche un senso, per così dire, elettivo.
È il mio motto nei piccoli e grandi terremoti della vita, per esempio, e serve a ricordarmi che il desiderio di mantenere fermo e immutabile il nostro mondo è un desiderio contro natura (più simile a un desiderio di morte che di vita).
Siamo nati e viviamo in un pianeta che gira, e non solo in senso metaforico: gira proprio materialmente, sotto i nostri piedi, portandoci in giro con sé.
Ma a prescindere da ciò, è proprio essere vivi che ha a che fare sempre con qualche forma di movimento.
Il sangue ci scorre nelle vene, il respiro entra ed esce dal nostro corpo, i pensieri vanno e vengono dalla nostra mente, le emozioni emergono e vagano tra mente e corpo.
Ogni alimento che ingeriamo genera nel nostro corpo una serie di movimenti interni per digerirlo.
La conservazione stessa della nostra specie è affidata a faccende movimentate: dall'atto sessuale alle contrazioni del parto.
E ciò senza contare tutti i movimenti che hanno a che fare con il naturale  crescere, maturare e invecchiare di ciascuno di noi, e i tanti cambiamenti che viviamo anche in famiglia, quando i vari membri vanno, vengono, crescono, maturano, invecchiano.
Per cui la questione diventa: è mai possibile che tutto questo movimento non ci provochi nemmeno un po' di... mal di mare?
Stando ai risultati di ricerca su Google, la frase Ciò che si muove non fa venire il mal di mare non l'ha mai detta nessuno. E forse un motivo ci sarà. 
Ma, a parte ciò, è la frase Ciò che si muove non congela, che sembra dirci una cosa precisa: e cioè che il movimento ed il cambiamento sono cose da vivi e non da morti. E che anche il mal di mare lo è.
Uscire dal movimento significa morire, congelare. E una volta morti il problema del mal di mare non ce l'avremo più.
Tutto questo solo per dire che qualche forma di mal di mare, prima o poi, tocca a tutti.
Fa parte della nostra normalità, del semplice fatto di essere umani e di essere vivi.
La questione quindi non è "come scansare il mal di mare", ma come vivere una vita di valore nonostante la dose di mal di mare che ogni viaggio comporta.

Quando lavoro con le persone, si pone spesso la questione di cosa esse desiderano davvero nella vita, cosa è veramente importante per loro, e come fare per costruire, mattone dopo mattone, una vita ricca, piena e significativa.
Per far questo è importante entrare in contatto con i più profondi desideri del nostro cuore, con i nostri valori personali, e fare di essi la bussola della nostra vita, lasciando che ci guidino verso i cambiamenti che intendiamo attuare e le mete che intendiamo raggiungere.
Questo non esclude però che potremmo trovare ostacoli, durante la nostra avventura, e non ci garantisce nemmeno che andrà sempre tutto liscio e che non avremo momenti di crisi.
Nessun essere umano è del tutto immune da eventi, sensazioni ed emozioni spiacevoli, e considerare la felicità come uno stato costante di sole sensazioni ed emozioni piacevoli è illusorio (ed è anche un condannare se stessi all'infelicità, perché quel tipo di felicità, come stato permanente e definitivo, è irraggiungibile).
È invece possibile accedere ad una visione più ampia e più saggia di felicità, che  riesce a comprendere in se stessa sia il piacere sia il dolore del vivere, ma senza consentire a quest'ultimo di ostacolarci, impedendoci di  procedere nella direzione che abbiamo scelto (quella indicata dai nostri valori personali).
Quando riusciamo ad accettare serenamente una ragionevole quota di dolore nella nostra vita, diventiamo molto più forti e molto più capaci di credere in noi stessi e nei nostri sogni. La posta in gioco, per noi, può essere infatti più alta del dolore che dobbiamo attraversare e riguardare il valore stesso della nostra vita. Riuscire a portare alla luce gli aspetti migliori della nostra natura, entrare in contatto profondo con ciò che per noi è davvero importante, vivere seguendo le indicazioni dettate dai nostri  personalissimi valori: è tutto questo che ci fa sentire bene e in pace con noi stessi e ci dà il senso che stiamo vivendo una vita di valore, indipendentemente da cosa pensano gli altri e da come andranno le cose.
***
Ma il "mal di mare"?
Quello lo possiamo affrontare con la Mindfulness.
E passa?
Di questo parleremo diffusamente nel prossimo post (clicca qui).
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Intanto vi anticipo che, proprio per riuscire a lavorare meglio nel counseling e nel life coaching, tenendo a bada le interferenze di pensieri ed emozioni spiacevoli, sto insegnando abilità di Mindfulness a molte persone, durante i percorsi individuali. Poiché i risultati sono stati finora molto soddisfacenti, è probabile che presto  verrà costituito un gruppo dedicato proprio all'apprendimento di abilità di Mindfulness, a prescindere dal fatto che si segua anche un persorso di counseling o life coaching con me.










domenica 15 febbraio 2015

Mettere la parola fine a una storia importante


Quando una storia d'amore è stata importante, il suo venir meno è un difficile passaggio, non solo per chi lo subisce e si considera abbandonato, ma anche per chi si assume la responsabilità della decisione di troncare.
La fine di una relazione, a qualunque causa sia dovuta, ci costringe a fare i conti con un vissuto di svuotamento e di perdita di senso.
Essa è assimilabile, per certi versi, ad un'esperienza di morte o di fallimento: ci sono dimensioni di perdita con cui ognuno deve fare i conti, c'è un dolore da attraversare, e ciò a prescindere dal fatto che si sia già avviato o meno un nuovo rapporto.
Ci troviamo inevitabilmente anche a fare bilanci, a mettere in discussione noi stessi, la nostra vita, il modo in cui abbiamo affrontato le circostanze.
Cominciamo a chiederci dove abbiamo sbagliato, di chi è la colpa di come sono andate le cose, quali fattori hanno segnato l'inizio della fine, se potevamo accorgercene per tempo e fare meglio o se meglio di così in realtà davvero non potevamo fare.
Nelle storie che durano, sperimentiamo un senso di sicurezza e di stabilità che ci pone al riparo dalla paura dell'impermanenza e della morte, e cioè in un certo senso dalla paura della vita stessa. Tutto cambia ed è incerto in questo mondo, tutto può finire da un momento all'altro, ma almeno sul nostro rapporto di coppia sappiamo di poter contare.
Così il mito dell'amore eterno apre la strada alla costruzione di altre certezze, a progetti di vita comune fondati sul desiderio di stati permanenti: il matrimonio, l'acquisto di una casa, la creazione di una famiglia. Tutte cose considerate solide, destinate a durare, la cui immagine interiorizzata dentro di noi ci offre appigli precisi che ci consentono di non vacillare sotto il peso di domande come: chi sono? che ne sarà di me? come proteggerò le mie aree vulnerabili dalle minacce dell'esistenza?
Nelle storie che durano barattiamo volentieri questo senso di sicurezza e di stabilità con la tolleranza delle piccole e grandi frustrazioni che l'amore riserva sui tempi lunghi. Impariamo a conoscere l'altro nel bene e nel male, ci abituiamo a convivere con i suoi lati buoni e meno buoni, gli offriamo di rimando il nostro pacchetto completo di vizi e virtù, e traiamo dal rapporto un nutrimento che ci sostiene, anche se non tutte le portate del menu sono di nostro gradimento (meglio questo, pensiamo, che stare digiuni).
La costruzione di questa specie di fortezza protettiva può costituire un freno potente rispetto al cambiamento anche quando diventiamo consapevoli  che nel nostro rapporto sono più le cose che non vanno rispetto a quelle che ci danno gioia, e che del vecchio sentimento che ci legava all'altra persona non sono rimasti che vuoti gesti dettati dall'abitudine.
Decidere di troncare ci metterebbe di fronte all'assunzione di una pesante responsabilità: potremmo commettere un terribile errore e gli scenari delle possibili conseguenze della nostra scelta possono farci molta paura.
Se poi a prendere la decisione è uno solo dei membri della coppia, c'è da fare i conti con il senso di colpa connesso all'assunzione di un ruolo da "distruttore" (del legame di coppia, dei progetti di vita comune, dell'unità del gruppo familiare), che suona un po' come quello del "cattivo" della situazione. Chi prende la decisione infatti sente di attuare bene o male un atto di violenza, un taglio che in varia misura può produrre dolore al partner, ai figli se ci sono, e in fondo anche a se stesso. Fuori del rapporto, infatti, anche chi ha preso la decisione, dovrà fare i conti con una ridefinizione della propria identità e sperimentarsi diverso da prima, in tutti gli ambiti e le situazioni - anche sociali - che fino a quel momento aveva vissuto come membro della coppia.
Ogni relazione importante imprime dentro di noi una traccia indelebile di ciò che abbiamo vissuto, che fa parte della nostra evoluzione psicologica. Anche per questo non è facile gestire il pacchetto emotivo che accompagna la fine di un rapporto significativo.
Quando si sta dentro ad una relazione ancora viva solo nella forma, ma già conclusa nella sostanza, il dubbio se sia meglio troncare o resistere non è di facile soluzione e ci mette di fronte ai limiti del nostro coraggio. Ce la facciamo a reggere l'incertezza che ci aspetta fuori del solco già tracciato? Ce la facciamo a reggere l'idea che potremmo non trovare un altro equilibrio simile a quello che lasciamo? Ce la facciamo a reggere la prospettiva della solitudine? Ce la facciamo a reggere tutti gli strascichi del senso di colpa della distruzione del passato, fino a che la costruzione del nuovo non avrà preso una forma abbastanza soddisfacente da giustificare tutto il terremoto?
Nessuno può decidere per noi. La vita di ciascuno rispecchia il suo modo di essere, il suo stile, i suoi valori, le sue personali attitudini, risorse, limiti. Ogni vita può essere una storia di valore, sia che i suoi eroi abbiano dato prova di capacità di resistenza nelle difficoltà, sia che abbiano dato prova di coraggio nel determinare cambiamenti grandi e difficili.
Un edificio cadente (come un rapporto di coppia che sembra non poter reggere più) tante volte riesce a sopravvivere per anni e anni, mantenendosi misteriosamente in piedi così com'è, senza crollare, e dando comunque un qualche rifugio dalle intemperie a chi lo abita; oppure può restare in vita giovandosi di interventi di consolidamento e restauro, che possono migliorare la situazione, valorizzando ciò che di buono ancora esisteva, anche se a un certo punto non si vedeva più;  o ancora può essere abbattuto del tutto per fare spazio alla costruzione di un edificio completamente nuovo, nella consapevolezza che in questo caso bisognerà investire forze e risorse nell'attuazione dell'intera impresa, e tollerare anche le difficoltà della fase intermedia - quella tra la demolizione dell'edificio  vecchio che non c'è più e la costruzione di quello nuovo che non c'è ancora -  che comporterà momenti di vuoto, di mancanza di riferimenti e appigli, e di resa dei conti rispetto alle nostre reali forze e alla nostra capacità di tollerare la solitudine. Si tratterà infatti  di gestire non solo una solitudine esteriore e oggettiva, ma anche un senso di solitudine interiore, connesso a quel senso di morte che, come si diceva all'inizio, può accompagnare dentro di noi la fine delle nostre relazioni importanti.
«Le risposte della nostra anima a questo complesso intreccio di sentimenti sono sempre individuali - ci ricorda Aldo Carotenuto, nel suo libro Il gioco delle passionie, proprio per questa ragione, non può esistere una formula universale per affrontare serenamente le separazioni.
In ogni caso, però, è fondamentale non pensare mai di "aver solo perso del tempo", e considerare ogni momento trascorso con l'altra persona come un passo importante della nostra evoluzione psicologica.» 



giovedì 20 novembre 2014

Il buddhismo zen e la depressione - Citazioni dal libro di Cheri Huber "Il dono della depressione. Il male oscuro come opportunità di crescita spirituale"

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Questo piccolo libro non vuole spiegare e nemmeno curare la depressione. Perciò non pensiate che vi suggerisca di fare a meno di terapie mediche o psicologiche. La sua proposta fondamentale è di considerare la depressione, come qualsiasi altra cosa della vita, un dono che può contribuire alla vostra crescita spirituale. Se riuscite a provare compassione per voi stessi, quando siete avvolti nel dolore impalpabile della depressione, forse vi accorgerete che è proprio così.
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Quando siete rattristati, permettetevi di sentire qualsiasi sensazione si affaccia in voi, invece di aggrapparvi al modello di come dovreste essere. Non è vero che certe sensazioni vanno bene ed altre no. "Bene" e "non bene" sono pensieri. Quando vogliamo che le sensazioni stiano sotto il controllo dei pensieri, ci mettiamo in difficoltà.
Il problema non è la sensazione ma il giudizio a cui la sottoponiamo.
Potremmo sentire qualsiasi cosa, ma se non pensassimo che in qualche modo quel che sentiamo è sbagliato, non ci sarebbe alcun problema. Il problema nasce quando rifiutiamo noi stessi per quel che sentiamo.
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In realtà quel che facciamo delle nostre sensazioni determina la qualità della relazione con noi stessi.
Siamo responsabili verso quel che sentiamo e non a causa di quello che sentiamo.
Se riusciamo a creare un luogo protetto, amorevole, dentro noi stessi, per quel che sentiamo, allora riusciamo a crearlo per tutti gli aspetti di ciò quel che siamo.
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Va bene essere quel che siete,
va bene sentire tutte le sensazioni che sentite.
E' questo che caratterizza gli esseri senzienti: le sensazioni.
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La rinuncia alla tua vita ti ha portato a essere accettato e approvato come hai sempre cercato?
Non essere chi sei veramente ti ha portato la gioia e la soddisfazione che desideravi?
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Sentirvi colpevoli di come siete
non fa altro che derubarvi della vostra vita.
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Va bene 
sentire qualsiasi cosa sentiate
pensare qualsiasi cosa pensiate
essere comunque siate
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Potete aprirvi alla possibilità che se foste quel che veramente siete, otterreste l'approvazione e l'accettazione che avete sempre cercato?
Se non altro, da voi stessi?
L'unica approvazione di cui andare in cerca è la nostra.
Se sento di aver fatto un buon lavoro, mi sento bene. Altrimenti no.
In realtà
non importa quel che pensano gli altri.
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Intraprendete una pratica di consapevolezza che vi aiuti a lasciar andare le credenze e le supposizioni su come voi e il mondo dovreste essere. Questo vi renderà capaci di vivere nel momento presente calmando il corpo, la mente, lo spirito e l'emozione. 
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La meditazione è praticata in tutto il mondo da migliaia di anni.
Nelle culture in cui la meditazione è un aspetto essenziale della vita religiosa, i praticanti hanno imparato che sedersi in una certa postura - la spina dorsale diritta, il corpo rilassato contribuisce a conservare la consapevolezza. Il dolore fisico e la sonnolenza vengono minimizzati.
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UNA POSTURA DI MEDITAZIONE 
Sedete sulla parte anteriore (circa un terzo) di un cuscino. Se usate uno sgabello, state bene avanti.
Aggiustate la posizione delle gambe, fino a trovarne una che possa essere comodamente mantenuta.
Rafforzate la postura, spingendo in su dalla base della spina dorsale. Immaginate di dover toccare il soffitto con la cima della testa.
Mentre lo fate, il mento rientrerà leggermente.
Il bacino si inclina leggermente in avanti.
Spalle e addome rilassati.
Gli occhi sono aperti, lievemente fuori fuoco, e abbassati, guardano il pavimento o il muro con un angolo di 45 gradi.
Le mani sono nel mudra cosmico. La mano destra pochi centimetri sotto l'ombelico, con il palmo in su. La mano sinistra, pure col palmo verso l'alto, sta dentro la mano destra. Le punte dei pollici si toccano, formando un ovale.
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Il respiro 
Per essere presenti e all'erta, in meditazione, può essere utile concentrarsi sulla respirazione. Quando sedete, respirate naturalmente e normalmente. Alla prima espirazione contate 1, alla successiva 2 e continuate fino a 10. A questo punto ripartite da 1.
Concentratevi sul respiro quando entra nel corpo, lo riempie, lo lascia.
Se l'attenzione divaga, dolcemente riportatela al presente e ricominciate a contare.
Fatelo per circa 30 minuti. Non è una gara. Il punto è essere presenti e consapevoli con compassione.
Essere dolcemente presenti a sé stessi per 5 minuti sarà più utile che bacchettarvi per 30. Se la scelta è tra una meditazione gentile e una lunga, scegliete la prima, perché l'atteggiamento della mente/cuore è tutto.
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Link collegati:
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domenica 16 novembre 2014

Rimpianti o rimorsi? Un pensiero di Aldo Carotenuto

"I rimpianti sono dei veri e propri spettri, sempre in agguato e pronti a devastare la nostra vita costringendoci a immaginare in modo doloroso come sarebbero potute andare le cose se solo si fosse riuscito a trovare il coraggio di osare.
A differenza del rimpianto, che implica una specie di dubbio amletico dovuto al non aver agito affatto, il rimorso consiste in un tarlo, in un cruccio provocato dalla consapevolezza di aver agito male, di aver preso la decisione sbagliata, di aver combinato un guaio. Non vi è dubbio che i rimorsi siano in grado di assillarci fino allo sfinimento eppure, soprattutto in amore, sono preferibili ai rimpianti. Il rimorso implica l'aver agito, l'essere stati in grado, ad esempio, di chiudere un rapporto che non funzionava più, per viverne un altro liberamente, ma implica anche il farsi carico di tutte le responsabilità e conseguenze che una simile azione può comportare. I rimorsi affiorano quando ci apriamo alla vita e ai sentimenti senza esitare, quando accettiamo di correre dei rischi pur di esprimere senza mentire ciò che proviamo. Ma vivere significa anche guardarsi allo specchio e rendersi conto all'improvviso di avere sbagliato tutto, di avere abbandonato nostro marito o nostra moglie per una persona che avevamo immaginato diversa, di avere mandato in frantumi un rapporto che invece era quello giusto per noi, di avere fatto soffrire qualcuno che non meritava tanto dolore. E' questa la normalità degli eventi: rischi, vittorie, sconfitte.
Accettare che le cose stiano in questo modo vuol dire compiere il primo e più importante passo verso la consapevolezza nei confronti della vita, ma significa anche accettare l'eventualità che le esperienze si trasformino in fallimenti, in rovinose cadute che trascinano verso il basso non solo noi stessi, ma anche le persone che ci circondano. Eppure è più utile e salutare accumulare rimorsi piuttosto che vivere di rimpianti. Poiché rimpiangere significa, su un piano metaforico, avere rinunciato a vivere, essersi sottratti alle esperienze e chiedersi, giorno dopo giorno, in modo quasi ossessivo, "come sarebbe stato se". "
(Aldo Carotenuto, Il gioco delle passioni)  
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venerdì 17 gennaio 2014

Vivere e condividere l'incertezza. La "Capacità Negativa" di John Keats


"Ciò che gli uomini vogliono non è la conoscenza, ma la certezza." (Bertrand Russel)
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Può risultare molto difficile tollerare uno stato d'incertezza: ci si deve confrontare con il senso d'impotenza, il disorientamento, la confusione.
Condizioni d'incertezza, di intensità ora maggiore ora minore, vengono sperimentate per esempio in tutti i momenti in cui la vita ci mette di fronte ai suoi grandi cambiamenti.
L'irrompere del nuovo può essere vissuto come un attentato alla nostra continuità mentale e risultare destabilizzante.

sabato 7 dicembre 2013

Il dolore secondo Gibran


E una donna disse:“Parlaci del dolore”.
E lui disse:
Il dolore è lo spezzarsi del guscio
che racchiude la vostra conoscenza.
Come il nocciolo del frutto deve spezzarsi
affinché il suo cuore possa esporsi al sole,
così voi dovete conoscere il dolore.
E se riusciste a custodire in cuore la meraviglia
per i prodigi quotidiani della vita,
il dolore non vi meraviglierebbe meno della gioia;
accogliereste le stagioni del vostro cuore
come avreste sempre accolto le stagioni
che passano sui campi.
E vegliereste sereni durante gli inverni del vostro dolore.
Gran parte del vostro dolore è scelto da voi stessi.
È la pozione amara con la quale il medico che è in voi
guarisce il vostro male.
Quindi confidate in lui e bevete il suo
rimedio in serenità e in silenzio.
Poiché la sua mano, benché pesante e rude,
è retta dalla tenera mano dell'Invisibile,
e la coppa che vi porge,
nonostante bruci le vostre labbra,
è stata fatta con la creta che il Vasaio
ha bagnato di lacrime sacre.

(da Il Profeta, di Gibran Kahlil Gibran)

domenica 10 novembre 2013

Il "capo espiatorio": un mantello per le nostre... cicatrici di guerra

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"Si diventa grandi sulla propria pelle
sulle proprie palle
 e su poche stelle."
(Roberto Vecchioni)

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"E' una buona idea ... calcolare l'età
non in base agli anni
 ma in base
 alle cicatrici di guerra.
«Quanti anni hai?»,
 mi chiedono talvolta.
Ed io rispondo:
 « Ho diciassette
 cicatrici di guerra»." 
(Clarissa Pinkola Estés)

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Nel suo libro Donne che corrono coi lupi, Clarissa Pinkola Estés racconta di un rituale, da lei attuato personalmente e poi suggerito anche ad altre persone (che pare lo abbiano apprezzato), che consiste nella realizzazione di un "capo espiatorio".
Si tratta di un capo, e per l'esattezza di un mantello, su cui una persona attacca, dipinge, ricama, scrive o comunque rappresenta simbolicamente i passaggi più dolorosi e difficili della propria vita: quelli che le hanno lasciato dentro qualche cicatrice, le cosiddette cicatrici di guerra, testimonianza di tutte le battaglie e gli attacchi a cui è sopravvissuta.
Come capo di abbigliamento è probabilmente la cosa peggiore che si possa concepire (e farebbe  probabilmente rimanenza in qualunque boutique, se mai ci arrivasse).
Ma l'intenzione originaria dell'autrice non era certamente di farne il pezzo forte del proprio guardaroba. Piuttosto il contrario:  l'intenzione originaria era di farne qualcosa di transitorio, un capo su cui caricare i segni di tutti i dolori della propria vita per poi distruggerlo (magari bruciandolo), come in una specie di rito  purificatorio.
Quest'ultimo peraltro può richiamare alla nostra mente il rito ebraico del kippūr, dove un'analoga funzione veniva assolta dal capro espiatorio, cioè dal capro che, caricato dal sommo sacerdote di tutti i peccati del popolo, veniva poi mandato via nel deserto.
Fatto sta che, una volta realizzato il suo mantello ("talmente pesante che per sollevare lo strascico ci voleva un coro di Muse"), Clarissa Pinkola Estés si accorse di un fatto strano. Ecco cosa racconta:
"Avevo in mente di mettere tutti i rifiuti psichici in questo unico oggetto psichico, e poi di disperdere alcune delle mie antiche ferite bruciando il «capo espiatorio». Ma poi tenni il mantello appeso al soffitto dell'anticamera, e ogni volta che gli passavo accanto, invece di sentirmi male, mi sentivo bene. Mi ritrovai ad ammirare gli ovarios della donna che poteva indossare un simile mantello e continuare a camminare a quattro zampe, a cantare, a creare, a dimenare la coda.Scoprii che ciò valeva anche per le donne con le quali ho lavorato. Mai hanno voluto distruggere il loro «capo espiatorio». Lo volevano tenere per sempre, e più era brutto e insanguinato, e meglio era".
Come a dire: un mantello del genere rappresenta le nostre cadute e le nostre sconfitte, ma anche le nostre vittorie, la nostra resistenza, e - a ben vedere - anche il nostro coraggio, perché ci vuole molto coraggio a realizzare un mantello così con le proprie mani.
Probabilmente non è una cosa che possiamo fare senza versare lacrime. Ma alla fine anche le lacrime hanno la loro funzione, anche le lacrime lavano e purificano, e forse anche questo può bastarci se non vogliamo ricorrere al fuoco.
"Le lacrime -  dice sempre Clarissa Pinkola Estés - sono un fiume che vi conduce da qualche parte. Il pianto crea attorno alla barca un fiume che porta la vostra vita-anima. Le lacrime sollevano la vostra barca al di sopra degli scogli, delle secche, portandovi in un posto nuovo, migliore."

domenica 22 settembre 2013

Tappe di vita e dolori di crescita

Esiste una capacità,  che è importante avere quando si attraversano i passaggi cruciali del ciclo di vita, che è quella di riuscire ad accettare il dolore delle separazioni e dei distacchi, soffrendolo, vivendolo fino in fondo, dandogli tutto il tempo che richiede, ma senza consentirgli di travolgerci.
Qualcuno la chiama "capacità di crescere".
E in un certo senso non si finisce mai di crescere, a qualunque età.
E' una legge ineludibile dell'esistenza dover evolvere continuamente, dover passare - a volte più in fretta, altre più lentamente - da una situazione ad un'altra, da un'età a un'altra, in un fluire continuo, in cui siamo sempre noi stessi, eppure non siamo più gli stessi.
Sempre qualcosa deve finire perché qualcosa di nuovo possa venire alla luce: ogni evoluzione è così, e c'è sempre un lutto da elaborare per ogni cosa che finisce, per ogni perdita, per ogni distacco, foss'anche il più naturale che c'è, il più canonico, il  più prevedibile, come:
- lasciare il calore del ventre materno, per venire al mondo;
- lasciare il seno che ci nutre, per alimentarci di nuovi cibi;
- lasciare le braccia che ci sostengono, per camminare in autonomia;
- lasciare il guscio protettivo della famiglia, per andare a scuola;
e via via, di tappa in tappa (dall'adolescenza, alla giovinezza, all'età adulta, alla mezza età, alla vecchiaia) procedendo lungo il cammino della vita, lasciandoci via via alle spalle le molte cose che un giorno sono state tutto il nostro mondo, e un bel giorno non lo sono più.
Una mamma una volta mi ha detto: i figli si partoriscono due volte, quando escono dal pancione e quando escono di casa.
Alludeva all'aspetto di duplice inizio e duplice distacco, che accomuna queste due tappe della vita, e non solo per il figlio (che nascendo perde la protezione del corpo materno e uscendo di casa quella del tetto familiare), ma anche per lei, la prima volta lasciata a fare i conti con il proprio corpo improvvisamente vuoto, dopo l'esperienza di pienezza della gravidanza, e la seconda con il nido familiare, coltivato e accudito per anni, eppure anch'esso improvvisamente vuoto.
Eppure la perdita del pancione, prima, e il nido vuoto, dopo,  scandiscono tappe fondamentali per poter dire,  in un arco di vita individuale e familiare, che "va tutto bene", la prima volta perché " il bambino è nato", e la seconda perché "il giovane ha cominciato la sua vita adulta".
Se un lutto c'è, in tutto questo, riguarda un'epoca che si è dovuta chiudere perché un'altra si potesse aprire. E' un lutto evolutivo, che non ha niente a che fare con la morte (a cui la parola lutto abitualmente rimanda), ma piuttosto con la vita, e con i continui cambiamenti che essa prevede.
E' un lutto che riguarda l'elaborazione dei passaggi, l'accettazione dei  distacchi perché si trovi un nuovo adattamento alla realtà che muta.
Ed è forse proprio questo che a volte è importante chiarire soprattutto a noi stessi, mentre facciamo i conti con questo tipo di lutti e la fatica che comporta elaborarli.
Nel caso delle madri, come quella citata, il rimpianto, se c'è, riguarda la fine di un'epoca, la fine di una magia destinata per sua natura a svanire allo scoccare dell'ora prevista, e non è un dolore che si possa sanare riportando il bambino nella pancia o il giovane a casa, perché questo sarebbe andare contro il corso naturale della vita, contro la spinta a crescere del figlio e contro la stessa funzione della coppia genitoriale che, per tappe e gradi, prima accoglie il nuovo nato, poi lo alleva e poi lo aiuta a costruire un trampolino di lancio per consentirgli proprio di prendere il volo.
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A seguire, citazioni sul tema.
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"Vorrei far partecipe il lettore della mia convinzione: il lutto è un processo essenziale della psiche, fondamentale nello sviluppo dell'individuo, nelle varie età della vita, nelle famiglie e nelle culture. [...]
Il lutto, come io lo intendo quando lo qualifico fondamentale o originario, non dovrebbe essere confuso con la depressione. Quella è un accesso o uno scacco, questo è un processo maturativo universale che, secondo me, si accompagna più alla vita che alla morte."
 (Paul-Claude Racamier, Il genio delle origini)
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"...dopo ogni distacco, piccolo o grande che sia, segue inevitabilmente un periodo di lutto, un periodo cioè in cui tutte le nostre energie sono assorbite dalla sofferenza per questo improvviso vuoto che si è venuto a creare nella nostra vita. E' una vera e propria reazione depressiva che, secondo Freud, differisce dalla depressione solo per una caratteristica, la mancanza di autosvalutazione [...].

Ma se tutti i cambiamenti, piccoli o grandi che siano, ripropongono il tema della crisi inevitabile che accompagna ogni passaggio, alcuni di questi passaggi nel corso del tempo, fanno vivere la crisi alla grande, per la quantità di cambiamenti che vi sono concentrati.
Non solo l'adolescenza ne è un buon esempio (tutti gli adulti che hanno a che fare con gli adolescenti lo sanno bene), ma anche la crisi della maturità, quella fra i quaranta e i cinquant'anni circa, ripropone in modo massiccio il tema del distacco. Non è tanto il passaggio alle età successive della vita, secondo Racamier, quello che ci fa soffrire, quanto il distacco definitivo dalla nostra adolescenza che non tornerà più. [...]


'Sa, [raccontava una donna] mi rendo conto che la crisi che sto attraversando ha a che fare con i miei quarantaquattro anni. I primi segnali li ho avuti quando ho cominciato a sentirmi male in macchina, mentre andavo al lavoro l'anno scorso. Solo più tardi ho scoperto che avevo a che fare con l'ansia. Ma mi rendo conto di sentire una maggiore insicurezza fisica rispetto al passato: prima mi sentivo invulnerabile o perlomeno sicura del mio corpo. Adesso è come se pensassi che invece mi possa tradire, anzi in certi momenti penso di avere qualcosa di grave, che in realtà non ho, come un tumore. Un'altra volta mi si è informicolato un braccio e pensavo di avere un infarto. Ma la massaggiatrice mi ha detto che in realtà ero tutta contratta sulle spalle. E poi, le rughe. Sembrano piccole cose, ma io ero abituata a vederle solo sugli altri, gli anziani in particolare, ma non su di me. Quando le vedo mi spavento ancora e lo stesso mi succede quando le noto nelle persone della mia età.'

Sono questi i piccoli segnali dello scorrere del tempo che in certi momenti particolari si concentrano e iniziano a segnare un distacco dall'epoca di vita precedente; e il distacco, se lo vogliamo superare, comporterà inevitabilmente un periodo di lutto e di fatica. 
Si può ingaggiare una lotta col tempo, si possono moltiplicare gli interventi estetici, la palestra, tutto ciò che può cancellare i segnali esterni dell'età, ma non si può fermare, né riportare indietro l'orologio della vita."
(Alba Marcoli, Passaggi di vita)
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