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mercoledì 16 dicembre 2015

La rabbia è un carburante. Due citazioni sulla rabbia

"La rabbia è un carburante; non appena la sentiamo proviamo una gran voglia di reagire: colpire qualcuno, scagliare qualcosa, rompere un piatto contro il muro o dire a quei bastardi che... Ma siamo persone per bene e perciò inghiottiamo la nostra rabbia come un rospo, la neghiamo, la seppelliamo, la blocchiamo, la nascondiamo, mentiamo su di essa, la medichiamo, la camuffiamo o la ignoriamo.
Insomma facciamo di tutto tranne che ascoltarla.
E invece la rabbia è proprio fatta per essere ascoltata.
È una voce, un campanello d'allarme, un grido, una richiesta che deve essere rispettata. Perché? Perché è un'utile mappa che ci può far capire quali sono i nostri confini, quando è il momento di tagliare la corda. Ci fa vedere dove siamo stati e, quando non ci è piaciuto, ci mostra il cammino. [...]
Spesso invece di ascoltarla e utilizzare la sua carica energetica per compiere un'azione, la subiamo sprecando la sua energia per metterla in azione, sfogandola in modo passivo. 
La rabbia ci indica la direzione: è per questo che la dobbiamo usare come carburante per muoverci nella direzione che ci indica.
Con un piccolo pensiero siamo in grado, di solito, di tradurre il messaggio che la nostra rabbia ci sta mandando.[...]
Se, in preda all'ira, vi sfogate dicendo: «Non posso crederci! Ha scritto quello che avevo pensato io tre anni fa!», l'ira che provate vi sta dicendo:  «Smettila di procrastinare. Le idee da sole non bastano, mettiti al lavoro e scrivi!» Oppure, se vi infuriate: «Ma non è possibile! Sta usando la mia stessa strategia! Lo sapevo che avrei dovuto mettere quel materiale insieme e batterlo a macchina!» questo vi dice:  «È ora di prendere le tue idee sul serio per trattarle bene».
Quando siamo arrabbiati proviamo spesso molta rabbia per il solo fatto di essere arrabbiati. «Maledetta rabbia!» Eppure essa ci dice che non possiamo continuare con la vecchia vita. Ci rivela che la vecchia vita sta ormai morendo, che stiamo rinascendo e che rinascere fa male... per questo ci arrabbiamo. La rabbia è la tempesta di fuoco che segna la morte della nostra vecchia vita, è il propellente che ci spinge in quella nuova. La rabbia è uno strumento, non un padrone; è fatta per sbatterci la testa contro e convertirla in progetto. Usarla propriamente significa andare a pieno regime.
L'indolenza rassegnata, l'apatia e la disperazione sono i veri nemici, non la rabbia! La rabbia è amica, forse un'amica un po' scomoda, poco gentile, ma molto molto leale perché ci dirà sempre quando abbiamo ingannato noi stessi e quando ci hanno ingannato, ricordandoci che è il momento di agire secondo i nostri interessi.
La rabbia non è un'azione in sé e per sé, bensì un invito all'azione."
(Julia Cameron, La via dell'artista - Come ascoltare e far crescere l'artista che è in noi, Longanesi, 1998

"Ascoltare la rabbia, sentire dentro di sé il fuoco che si accende, ci permette di capire quali sono i nostri confini interni che sono stati violati, facendoci perdere l'integrità del nostro senso di identità. Ecco perché è indispensabile prestarle attenzione. 
L'emozione della rabbia si colloca in quella che Jung chiama l'Ombra, il luogo psichico in cui vengono a porsi tutte quelle forze e tendenze vitali che vengono vissute dall'Io come pericolose e spiacevoli, non adatte socialmente e che temiamo ci facciano perdere l'amore degli altri. In realtà questi contenuti psichici vanno accolti nell'esperienza effettiva della nostra vita e non repressi, se vogliamo procedere verso la costruzione del nostro equilibrio psicologico.
La nostra Ombra ci è ostile - facendoci ammalare di depressione o agire in modo esplosivo - solo quando noi la ignoriamo e la misconosciamo: va invece integrata nell'Io per permetterci di sviluppare il nostro Sé completo.
Se alcuni aspetti della nostra personalità rimangono in ombra (isolati, negati, proiettati, rifiutati), diventano voragini oscure che inglobano la paura che abbiamo di fare esperienza completa di noi stesse. Creano l'atteggiamento difensivo di un Io isolato e incapace di dare vita a una relazione soddisfacente con gli altri o con il mondo.
Quando, invece, questi aspetti, inconsciamente rifiutati, vengono portati alla coscienza, accettati, tollerati e integrati, possiamo  raggiungere il Sé (1) junghiano e automaticamente si libera la forza della compassione buddhista (2).
[...] È molto interessante vedere come nelle rappresentazioni buddhiste del regno infernale il bodhisattva (3) della compassione venga raffigurato con in mano uno specchio e con una fiamma purificatrice, a significare che le sofferenze possono essere alleviate soltanto quando si riescono a vedere nello specchio le emozioni rifiutate che, se vengono riconosciute, diventano a loro volta terapeutiche. Nel buddhismo è infatti un assunto centrale “non attaccarsi e non condannare”.
Allo stesso modo nella cultura classica occidentale, il dio del fuoco, Efesto, aveva la sua fucina dentro un vulcano. Simbolicamente egli rappresenta la possibilità che la rabbia , appunto vulcanica, possa essere contenuta e trasformata in energia creativa per forgiare armature e opere d’arte.
Ma il punto è che accogliere la nostra rabbia  non implica affatto e semplicisticamente assumere comportamenti aggressivi, se per aggressività si intende di attacco psico-fisico dell’altro.
La rabbia psicologica di cui parliamo e che dobbiamo imparare a sentire è, in realtà, l’energia assertiva, la capacità di affermare che io esisto, nel modo in cui esisto, con l’orgoglio della m ia specificità irrinunciabile.
Se essere aggressivi vuol dire «io sono contro di te», essere assertivi vuol dire, semplicemente ma a gran voce,  «io sono».”
(Monica Morganti, Il fuoco della rabbia. Percorsi terapeutici tra Oriente e Occidente, Armando Editore, 2004)




 (1) « ... intellettualmente il Sé non è altro che un concetto psicologico, una costruzione, che deve esprimere un ente per noi inconoscibile, che non possiamo afferrare come tale, perché esso supera la nostra capacità di comprensione. Esso potrebbe parimenti venir definito come “il Dio in noi”. Gli inizi di tutta la nostra vita psichica sembrano scaturire, inestricabili, da questo punto, e tutte le mete ultime e supreme sembrano convergervi ». (C.G.Jung, L’Io e l’inconscio, Torino, Boringhieri, 1967, p.162).
(2) La compassione nel buddhismo tibetano indica il desiderio che tutti gli esseri siano privi della sofferenza e delle sue cause.
(3) Bodhisattva è il termine sanscrito che indica un essere destinato all’illuminazione che è lo stato proprio di un Buddha, in cui ogni dualismo è trasceso in una totale unità: l’eliminazione di tutti gli stati negativi della mente e la realizzazione di ogni qualità positiva. 
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domenica 9 febbraio 2014

E della rabbia, che me ne faccio?






Care Signore,
Vi piacerebbe essere così?
Vi siete mai sentite così?
Vi hanno mai fatte sentire così?

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Non sono poche le donne che temono di poter somigliare a Medusa, quando si arrabbiano.
Tra avere un diavolo per capello e avere una capigliatura di serpenti, non corre poi tanta differenza.
E così anche il potere distruttivo della  nostra collera, quando si manifesta in maniera violenta, somiglia tanto alla distruttività dello sguardo di Medusa, capace di pietrificare ogni essere vivente, e così di distruggere le relazioni.
Medusa simboleggia un femminile negativo e distruttivo, che può venir fuori anche da una donna stupenda, sotto l'effetto dell'ira.
E non a caso la leggenda vuole che fu proprio l'ira di una dea, Atena, a trasformare la povera Medusa, da fascinosa a mostruosa. Il che aggiunge un altro elemento alla nostra metafora, suggerendo cioè che una vera dea (come una vera signora), quando si arrabbia, non può tollerare di avere in sé gli aspetti brutti, distruttivi e poco dignitosi che una tale emozione tira fuori ed abbia bisogno di sbarazzarsene al più presto, per non vederli e non sentirli.
Atena  infatti fa proprio così: li colloca fuori di sé e li carica su Medusa; da una parte c'è il mostro e dall'altra la dea; da una parte la  rabbia terribile, vergognosa e inaccettabile, dall'altra la bellezza, la dignità e lo stile.
Nel suo libro The Heart of Religion, Phiroz Mehta, dice:
"La prima reazione di fronte a uno stato spiacevole e negativo è quella di sbarazzarsene.
Posso tentare di dimenticare o ignorare, di sopprimerlo o fuggirlo: per disperazione posso anche tentare di distruggerne la causa. Invece devo essere pienamente osservante e spassionato ed assorbirlo con delicatezza nella mia psiche, così da consentire che il mio male si trasformi in comprensione."
Questo significa che, per fare i conti con la nostra rabbia, dobbiamo innanzitutto riconoscerla, tollerare il disagio che ci provoca, e accettarla così com'è, senza agirla d'impulso e senza cercare di sbarazzarcene quanto prima.
Il che non significa inghiottirla, bensì entrare in uno stato che ci consenta di padroneggiarla, di utilizzare cioè  la sua carica energetica per cambiare la situazione che stiamo vivendo,  per dire ciò che è appropriato dire, e fare ciò che è giusto fare, in quella circostanza.
Questo significa non cadere né nella passività impaurita (inghiottire) né  nella reattività impulsiva (che, sotto sotto, ha molto a che fare, anch'essa, con la paura).
Significa trasformare la nostra istintiva aggressività  in assertività, dove l'aggressività è un atteggiamento che dice "io sono contro di te", mente l'assertività è affermare con decisione (e all'occorrenza a gran voce) semplicemente "io sono" (e quindi ho il diritto di esistere e di essere rispettato con le mie caratteristiche, i miei bisogni, i miei valori, la mia dignità, i miei desideri, la mia ricerca di benessere).
Ed ora una storia indiana, metafora di tutto ciò, e a seguire la soluzione accolta alla fine anche dalla saggia Atena.
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Tanti anni fa - facciamo mille - in una terra lontana, diciamo in India, c'era un villaggio con un grosso problema: un enorme serpente velenoso minacciava e terrorizzava la popolazione ed aveva  già fatto  parecchie vittime.
Un giorno passò per il villaggio un sant'uomo, di quelli capaci di governare le forze della natura e di parlare con gli animali, e la gente chiese il suo aiuto.
Egli allora parlò al serpente, che da quel giorno divenne mansueto e inoffensivo.
Dopo qualche tempo, il sant'uomo tornò al villaggio ed apprese che il serpente se la passava molto male, perché la gente gliene faceva di tutti i colori: gli tirava sassi, lo trascinava per la coda, lo derideva e lo umiliava.
Allora il sant'uomo andò nuovamente dal serpente e gli disse: "Io ti avevo invitato a non fare del male agli altri, ma non ti avevo detto di non sibilare..."
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Se nella leggenda indiana l'assertività è simboleggiata dal serpente che sibila, pur non uccidendo, anche la mitologia greca offre un'immagine simbolica che sembra comporre il conflitto tra i due aspetti della femminilità rappresentati da Medusa e Atena.
Quando Medusa infatti viene decapitata da Perseo, la sua testa - ancora minacciosa - viene donata, dopo varie peripezie, dall'eroe ad Atena.
La dea non solo accetta il dono (e una testa decapitata non è certo un mazzo di rose...), ma pone la testa di Medusa sulla sua egida, che diviene così uno strumento di difesa ancora più potente.
La dea, in tal modo, conserva la sua divina dignità, ma al tempo stesso si riappropria dei suoi aspetti-Medusa, prima rifiutati, accettandoli e mettendoli al servizio delle sue parti elette.
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