sulle proprie palle
e su poche stelle."
e su poche stelle."
(Roberto Vecchioni)
***
"E' una buona idea ... calcolare l'età
non in base agli anni
ma in base
alle cicatrici di guerra.
«Quanti anni hai?»,
mi chiedono talvolta.
non in base agli anni
ma in base
alle cicatrici di guerra.
«Quanti anni hai?»,
mi chiedono talvolta.
Ed io rispondo:
« Ho diciassette
cicatrici di guerra»."
« Ho diciassette
cicatrici di guerra»."
(Clarissa Pinkola Estés)
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Nel suo libro Donne che corrono coi lupi, Clarissa Pinkola Estés racconta di un rituale, da lei attuato personalmente e poi suggerito anche ad altre persone (che pare lo abbiano apprezzato), che consiste nella realizzazione di un "capo espiatorio".
Si tratta di un capo, e per l'esattezza di un mantello, su cui una persona attacca, dipinge, ricama, scrive o comunque rappresenta simbolicamente i passaggi più dolorosi e difficili della propria vita: quelli che le hanno lasciato dentro qualche cicatrice, le cosiddette cicatrici di guerra, testimonianza di tutte le battaglie e gli attacchi a cui è sopravvissuta.
Come capo di abbigliamento è probabilmente la cosa peggiore che si possa concepire (e farebbe probabilmente rimanenza in qualunque boutique, se mai ci arrivasse).
Ma l'intenzione originaria dell'autrice non era certamente di farne il pezzo forte del proprio guardaroba. Piuttosto il contrario: l'intenzione originaria era di farne qualcosa di transitorio, un capo su cui caricare i segni di tutti i dolori della propria vita per poi distruggerlo (magari bruciandolo), come in una specie di rito purificatorio.
Quest'ultimo peraltro può richiamare alla nostra mente il rito ebraico del kippūr, dove un'analoga funzione veniva assolta dal capro espiatorio, cioè dal capro che, caricato dal sommo sacerdote di tutti i peccati del popolo, veniva poi mandato via nel deserto.
Fatto sta che, una volta realizzato il suo mantello ("talmente pesante che per sollevare lo strascico ci voleva un coro di Muse"), Clarissa Pinkola Estés si accorse di un fatto strano. Ecco cosa racconta:
"Avevo in mente di mettere tutti i rifiuti psichici in questo unico oggetto psichico, e poi di disperdere alcune delle mie antiche ferite bruciando il «capo espiatorio». Ma poi tenni il mantello appeso al soffitto dell'anticamera, e ogni volta che gli passavo accanto, invece di sentirmi male, mi sentivo bene. Mi ritrovai ad ammirare gli ovarios della donna che poteva indossare un simile mantello e continuare a camminare a quattro zampe, a cantare, a creare, a dimenare la coda.Scoprii che ciò valeva anche per le donne con le quali ho lavorato. Mai hanno voluto distruggere il loro «capo espiatorio». Lo volevano tenere per sempre, e più era brutto e insanguinato, e meglio era".
Come a dire: un mantello del genere rappresenta le nostre cadute e le nostre sconfitte, ma anche le nostre vittorie, la nostra resistenza, e - a ben vedere - anche il nostro coraggio, perché ci vuole molto coraggio a realizzare un mantello così con le proprie mani.
Probabilmente non è una cosa che possiamo fare senza versare lacrime. Ma alla fine anche le lacrime hanno la loro funzione, anche le lacrime lavano e purificano, e forse anche questo può bastarci se non vogliamo ricorrere al fuoco.
"Le lacrime - dice sempre Clarissa Pinkola Estés - sono un fiume che vi conduce da qualche parte. Il pianto crea attorno alla barca un fiume che porta la vostra vita-anima. Le lacrime sollevano la vostra barca al di sopra degli scogli, delle secche, portandovi in un posto nuovo, migliore."
Si tratta di un capo, e per l'esattezza di un mantello, su cui una persona attacca, dipinge, ricama, scrive o comunque rappresenta simbolicamente i passaggi più dolorosi e difficili della propria vita: quelli che le hanno lasciato dentro qualche cicatrice, le cosiddette cicatrici di guerra, testimonianza di tutte le battaglie e gli attacchi a cui è sopravvissuta.
Come capo di abbigliamento è probabilmente la cosa peggiore che si possa concepire (e farebbe probabilmente rimanenza in qualunque boutique, se mai ci arrivasse).
Ma l'intenzione originaria dell'autrice non era certamente di farne il pezzo forte del proprio guardaroba. Piuttosto il contrario: l'intenzione originaria era di farne qualcosa di transitorio, un capo su cui caricare i segni di tutti i dolori della propria vita per poi distruggerlo (magari bruciandolo), come in una specie di rito purificatorio.
Fatto sta che, una volta realizzato il suo mantello ("talmente pesante che per sollevare lo strascico ci voleva un coro di Muse"), Clarissa Pinkola Estés si accorse di un fatto strano. Ecco cosa racconta:
"Avevo in mente di mettere tutti i rifiuti psichici in questo unico oggetto psichico, e poi di disperdere alcune delle mie antiche ferite bruciando il «capo espiatorio». Ma poi tenni il mantello appeso al soffitto dell'anticamera, e ogni volta che gli passavo accanto, invece di sentirmi male, mi sentivo bene. Mi ritrovai ad ammirare gli ovarios della donna che poteva indossare un simile mantello e continuare a camminare a quattro zampe, a cantare, a creare, a dimenare la coda.Scoprii che ciò valeva anche per le donne con le quali ho lavorato. Mai hanno voluto distruggere il loro «capo espiatorio». Lo volevano tenere per sempre, e più era brutto e insanguinato, e meglio era".
Come a dire: un mantello del genere rappresenta le nostre cadute e le nostre sconfitte, ma anche le nostre vittorie, la nostra resistenza, e - a ben vedere - anche il nostro coraggio, perché ci vuole molto coraggio a realizzare un mantello così con le proprie mani.
Probabilmente non è una cosa che possiamo fare senza versare lacrime. Ma alla fine anche le lacrime hanno la loro funzione, anche le lacrime lavano e purificano, e forse anche questo può bastarci se non vogliamo ricorrere al fuoco.
"Le lacrime - dice sempre Clarissa Pinkola Estés - sono un fiume che vi conduce da qualche parte. Il pianto crea attorno alla barca un fiume che porta la vostra vita-anima. Le lacrime sollevano la vostra barca al di sopra degli scogli, delle secche, portandovi in un posto nuovo, migliore."